Il governo del presidente Rafael Correa ha rescisso il contratto con la multinazionale petrolifera spagnola che non voleva accettare di rinegoziare i termini delle concessioni per l’estrazione del greggio in Amazzonia. Un segnale per le altre majors del greggio.
A cura di Giuseppe De Marzo
11 Novembre 2008
La multinazionale spagnola Repsol rompe con il governo ecuadoriano. Il governo di Raffael Correa, presidente dell’Ecuador, continua a portare avanti la propria politica di trasformazione del paese, a partire ovviamente da una nuova gestione delle relazioni politiche ed economiche con le grandi corporations che per quaranta anni hanno fatto il bello ed il cattivo tempo, arrivando persino a spartirsi l’Amazzonia in blocchi numerati e delimitati con il righello così come si faceva per spartirsi l’Africa da parte delle potenze colonialiste europee nei secoli passati. Quelle linee troppo rigide e innaturali stridono con la straordinaria bellezza dell’Amazzonia. La sua biodiversità, le sue foreste e soprattutto le sue comunità native schiacciate per decenni in argini asfissianti, appartenenti a un’idea della vita e dell’economia che proviene più dai grattacieli occidentali e dai consigli di amministrazione organizzati da quelli che vengono definiti «gli uomini grigi». Così le comunità e i popoli nativi dell’Amazzonia ecuadoriana chiamano i manager ed i funzionari che lavorano in questo enorme circo che ha nello sfruttamento intensivo e distruttivo la sua acme.
Dopo anni di iperliberismo, di politiche di aggiustamento strutturale imposte dal Fmi, con la dollarizzazione dell’economia e la conseguente scomparsa della moneta nazionale, il sucre, la distruzione e l’avvelenamento criminale di terra e viventi, pare proprio che l’Ecuador abbia voltato pagina. Il nuovo governo non solo ha convocato e vinto l’Assemblea costituente, ma ha consentito alla società civile, almeno in parte, di riscrivere le regole del contratto sociale. La nuova Carta costituzionale infatti introduce diritti nuovi che segnano un passo in avanti gigantesco nell’azione politica e nelle possibilità dei movimenti di continuare il processo di trasformazione. Una nuova Costituzione che apre un varco normativo nel quale infilarsi costruendo consenso su proposte alternative. Il caso Repsol è riconducibile proprio in questo ambito. La situazione che ha prodotto la rottura dei contratti di sfruttamento petrolifero con la Repsol si basa sul fatto che la multinazionale si è resa indisponibile a cambiare il modello del contratto da quello attuale di «partecipazione», dove il petrolio è dell’impresa, a quello di «prestazione di servizio», dove lo Stato paga per lo sfruttamento del petrolio ma questo rimane di proprietà del paese. Una sottile quanto sostanziale differenza giuridica basata proprio sul fatto che la nuova Costituzione stabilisce che lo Stato è proprietario di tutti i beni comuni, risorse idriche ed energetiche, e che è suo dovere tutelarle e metterle a disposizione della collettività. Un cambiamento non da poco, che si traduce da subito nella fine del modello di controllo delle multinazionale che faceva assomigliare l’Ecuador più al paese dei balocchi che a un paese con sovranità propria. L’Ecuador ha disposto la rescissione unilaterale ed anticipata del contratto con Repsol per «assenza di serietà» durante il processo di rinegoziazione, spiega così il ministro delle miniere e del petrolio, Derlis Palacios. La Repsol non commenta, mentre Palacios ha annunciato che Petroecuador prenderà il posto dell’impresa spagnola continuando a portare avanti i contratti che prevedono lo sfruttamento petrolifero. Sono infatti tre i contratti della Repsol che sarebbero scaduti solo nel 2012 e che Petroecuador si appresta a riscattare. Rispettivamente nel blocco 16, nel blocco Bogi-Capiron ed in quello del Tivacuno, tutti in Amazzonia, dove la Repsol produceva 63 mila barili al giorno.
«Lo Stato ecuadoriano non accetta giochi», questo il commento finale del governo. Le altre multinazionali sono avvisate. Il paese dei balocchi ha chiuso e bisognerà abituarsi in fretta a relazionarsi in maniera diversa con i paesi dell’America del Sud, non più disponibili a svendere la propria sovranità in cambio di qualche sacco di riso o di qualche specchietto.