Un anno fà l’esercito Nigeriano attaccò nella notte la flow-station dell’Eni a Ogboinbiri, nello Stato di Bayelsa nella regione del Delta del Niger, occupata da quattro giorni. Una strage mai chiarita di cui ripercorriamo i passaggi.
A cura di Edo Dominici
29 Giugno 2008
Il primo comunicato delle agenzie di Stampa e dell’ENI riportava poche scarne righe descrivendo l’ennesima azione contro la compagnia petrolifera di stato.
Era il 18 giugno 2007 – ore 07:59: Attacco alla flowstation di Ogboinbiri
Eni informa che nella prima mattina del 17 giugno un gruppo di uomini armati ha occupato la flow station di Ogboinbiri nello stato di Bayelsa in Nigeria. Al momento dell’attacco erano presenti 24 lavoratori nigeriani e 51 soldati. 40 soldati e 8 lavoratori sono riusciti a lasciare la flow station. Secondo quanto risulta ad Eni pare non ci siano stati feriti o morti durante l’attacco.
Eni sta collaborando con le autorita’ del Bayelsa per ottenere una rapida e positiva soluzione. (www.eni.it)
Queste poche righe, nella loro incongruità attirarono l’attenzione dell’Osservatorio sull’Eni di cui ASud fa parte.
Iniziammo a porci diverse domande: Dunque, stiamo parlando di una stazione di pompaggio a terra (flow station) protetta da 51 soldati ben armati. Come mai una flow station difesa da ben 51 soldati armati viene attaccata e occupata da “un gruppo di uomini armati” (8 uomini armati in tutto, chiarirà, come vedremo in seguito, l’allora Sottosegretario agli Esteri Danieli ) e nessuno spara un colpo, nessuno viene ferito e addirittura, dicono le agenzie, 40 soldati e 8 lavoratori riescono a scappare ?
Secondo questa versione rimangono come ostaggi 11 soldati e 16 lavoratori. (L’Eni e Danieli daranno altre cifre)
Uno strano gruppo armato questo, infatti dopo 5 giorni, siamo a giovedì 21 giugno, gli “uomini armati” sono ancora ad occupare la flow Station dell’ENI. Come mai ? – ci chiediamo. Per fare che?
All’Osservatorio ENI pensiamo che sia in corso una trattativa e che presto la situazione si risolverà con un accordo. E’ successo spesso negli ultimi 18 mesi in questa tormentata regione.
Ma il 21 giugno l’AGI (Agenzia Giornalistica Italia, di proprietà dell’ENI) riporta:
(AGI/REUTERS) – Lagos (Nigeria), 21 giu. – L’esercito nigeriano ha compiuto un’operazione militare nella stazione di pompaggio dell’Eni nigeriana di Ogbainbiri, nella regione del Delta dello stato di Bayelsa, dove da domenica sono tenuti in ostaggio sedici dipendenti del posto e undici soldati. I militari hanno affermato di aver trovato nella stazione solamente undici lavoratori e di averli liberati e tratti in salvo. Dodici miliziani sono stati uccisi. (AGI).
Anche questa notizia lascia molto perplessi: Possibile che durante l’attacco siano stati uccisi 12 “miliziani armati” e nessun soldato o lavoratore sia rimasto ferito? Senza considerare che il numero sia dei lavoratori, sia dei militari “liberati” non coincidono con il numero di “sequestrati” fornito dall’Eni e dalle Agenzie di stampa.
Cerchiamo con enormi difficoltà di ricostruire la vicenda e finalmente scopriamo che sui media Nigeriani i militanti del Delta danno una versione completamente diversa della vicenda.
Da fonti di stampa che intervistano alcuni leader locali esce fuori un’altra verità. Secondo queste fonti, il 12 giugno, durante un pattugliamento in barca delle forze armate nigeriane adibite alla protezione degli impianti petroliferi dell’Eni, i militari hanno aperto il fuoco contro un’imbarcazione di presunti “miliziani”, uccidendo in realtà 9 civili disarmati e inermi. Secondo queste informazioni i membri delle comunità colpite hanno deciso di occupare pacificamente (secondo questa fonte c’erano pochi uomini armati per “autodifesa”) per protesta la Flow Station dell’Agip.
Il 25 giugno in un comunicato inviato al Times of Nigeria e poi ripreso da altri quotidiani nigeriani, Cynthia Whyte portavoce del JRC (Joint Revolutionary Council), una coalizione di gruppi delle milizie attive nella regione petrolifera del Delta del Niger dava la sua ricostruzione.
Anche secondo questa ricostruzione qualche settimana fa l’esercito avrebbe ucciso alcuni civili Ijaw, e i loro parenti, con un gruppo di giovani hanno occupato per protesta la flow-station dell’Agip.
«Giovedì 21 giugno 2007- scrive il Times of Nigeria- su richiesta della oil Company [cioè l’Eni], forze armate della Sicurezza, che sembra che lavorino per il gigante petrolifero italiano, hanno attaccato e ucciso 12 giovani Ijaw di Ogboinbiri che stavano protestando contro la criminale uccisione dei loro parenti, avvenuta la settimana prima da parte delle forze armate».
L’articolo prosegue citando le parole di Cynthya Whyte: «Tutti coloro che sono stati parte di questa atrocità contro le nostre genti ne vedranno i frutti in futuro. La NAOC (Nigerian Agip Oil Company) sarà ripagata dallo stesso numero di incidenti, dolore e lutti….. Informiamo tutti gli uomini di buona volontà che tutte le azioni di rappresaglia prese contro l’Agip e i suoi cospiratori non saranno in alcun modo rapportate con la nostra prima decisione di tregua nelle ostilità contro il Governo Nigeriano. Le azioni di ostilità contro l’AGIP sono considerate solo come un risposta per quello che sta facendo l’AGIP e per ridurre l’attività operativa della NAOC negli Stati del Rivers e di Bayelsa».
Nessun comunicato ufficiale è giunto dall’ENI o dal Governo Italiano su questa triste vicenda accaduta in un impianto della multinazionale a partecipazione statale.
E’ stato un attacco armato o un’occupazione pacifica finita nel sangue ?
Ci sono delle responsabilità dell’ENI come sostengono alcuni leaders locali?
Qual è stato il ruolo dell’ENI ?
Nel suo primo comunicato l’ENI dichiarò che “…sta collaborando con le autorità del Bayelsa per ottenere una rapida e positiva soluzione”.
Questi sono stati i frutti di questa “collaborazione” ?
Il giorrno dopo lanciammo come Osservatorio sull’ENI un appello al Governo italiano e il Ministero degli Esteri per avere chiarimenti su questa vicenda.
Ci risposero alcuni deputati del PRC, in particolare Paolo Cacciari con il quale già avevamo presentato precedenti Interrogazioni al Governo.
Per non dimenticare quei 12 morti e le “nostre” responbilità vi invito a leggere l’Interrogazione Urgente presentata e la risposta del Governo Prodi tramite il Sottosegretario agli Esteri Danieli.
Atto Camera
Interpellanza urgente 2-00639
presentata da
PAOLO CACCIARI
martedì 3 luglio 2007 nella seduta n.182
I sottoscritti chiedono di interpellare il Ministro degli affari esteri, per sapere – premesso che:
il 17 giugno la società petrolifera Eni ha informato che nella prima mattina di quello stesso giorno un non meglio precisato gruppo di uomini armati aveva occupato la flow station di Ogboinbiri nello stato di Bayelsa in Nigeria;
al momento dell’attacco, secondo quanto diffuso dalla stessa Eni, sarebbero stati presenti nell’impianto 24 lavoratori nigeriani e 51 soldati. 40 soldati e 8 lavoratori sarebbero riusciti a lasciare la flow station. Secondo quanto risulta ad Eni, pare non ci siano stati feriti o morti durante l’attacco;
il 21 giugno, quattro giorni dopo le prime notizie diffuse da Eni, le agenzie di stampa informavano che durante un’operazione militare lanciata nella notte dall’esercito nigeriano la stazione di pompaggio di Ogboinbiri era stata liberata dopo quattro giorni di occupazione da parte, si suppone, di quello stesso gruppo armato cui si riferivano le notizie diramate dall’Eni. Un portavoce dell’esercito ha riferito che nell’attacco sono stati uccisi 12 «militanti». Lo stesso portavoce ha riferito anche di aver trovato e liberato solo 11 tecnici al momento del raid e che dei soldati che secondo Eni erano stati presi in ostaggio non vi era traccia;
il 25 giugno in una comunicazione inviata al Times of Nigeria e poi ripresa da altri quotidiani nigeriani, Cynthia Whyte portavoce del JRC (Joint Revolutionary Council), una coalizione di gruppi delle milizie attive nella regione petrolifera del Delta del Niger dava un’altra versione dei fatti;
secondo questa ricostruzione qualche settimana fa l’esercito avrebbe ucciso alcuni civili Ijaw, e i loro parenti con un gruppo di giovani hanno occupato per protesta la low-station dell’Agip;
«giovedi 21 giugno 2007 – prosegue l’articolo del Times of Nigeria – su richiesta della oil Company (cioè l’Eni), forze armate della Sicurezza che sembra che lavorino per il gigante petrolifero italiano hanno attaccato e ucciso 12 giovani Ijaw di Ogboinbiri, che stavano protestando contro la criminale uccisione dei loro parenti avvenuta qualche settimana prima da parte delle forze armate»;
l’articolo prosegue citando le parole della suddetta Cinzia White: «Tutti coloro che sono stati parte di questa malvagità contro le nostre genti ne vedranno i frutti in futuro. La NAOC (Nigerian Agip Oil Company) sarà ripagata dallo stesso numero di incidenti, dolore e sfortuna…. Informiamo tutti gli uomini di buona volontà che tutte le azioni di rappresaglia prese contro l’Agip e i suoi cospiratori non saranno in alcun modo rapportate con la nostra prima decisione di tregua nelle ostilità contro il Governo Nigeriano. Le azioni di ostilità contro l’AGIP sono considerate solo come un pagamento per quello che fa l’AGIP e per ridurre l’attività operativa della NAOC negli Stati del Rivers e di Bayelsa»;
nella ricostruzione degli eventi fatta dal Times of Nigeria, non c’è traccia dei soldati che secondo Eni presidiavano l’impianto -:
quali siano le norme di sicurezza adotta l’Eni in Nigeria per garantire la sicurezza dei lavoratori e degli impianti;
quanti «soldati» fossero effettivamente presenti al momento dell’attacco e che azioni difensive hanno intrapreso;
se i «soldati» presenti al momento dell’attacco facciano parte delle forze di sicurezza dell’ENI o rispondono alle autorità nigeriane;
quanti fossero i «miliziani» che hanno sostenuto l’attacco e mantenuto l’occupazione e se tra loro ci fossero anche dei civili;
se sia stato un attacco armato o un’occupazione pacifica;
per quale ragione gli assalitori siano rimasti nella stazione di pompaggio per ben 5 giorni e se fosse stata aperta una trattativa;
se l’attacco alla stazione di pompaggio che ha liberato gli ostaggi e causato 12 vittime tra gli assalitori sia stata condotta dall’esercito nigeriano o da forze della sicurezza dell’Agip;
se ci sia stata resistenza da parte degli occupanti e se ci siano state vittime o feriti tra i «liberatori»;
quale sia l’effettivo numero degli ostaggi liberati e dove siano gli altri presunti ostaggi a cui aveva fatto riferimento l’Eni nel primo comunicato;
che tipo di politiche verso le popolazioni locali del Delta del Niger l’Eni abbia intenzione di attuare per abbassare il livello di tensione salito oltremisura negli ultimi mesi;
che impatto abbiano avuto le azioni armate e i sequestri di personale sulla produzione petrolifera dell’Eni in Nigeria;
che tipo di meccanismi di controllo e verifica l’Eni e il governo abbiano intenzione di attuare per consentire una valutazione indipendente della situazione nel Delta del Niger.
(2-00639)
«Cacciari, Mantovani, Siniscalchi, Migliore».
Vicende relative all’attacco alla stazione di pompaggio dell’ENI in Nigeria – n. 2-00639)
PRESIDENTE. Il deputato Cacciari ha facoltà di illustrare la sua interpellanza n. 2-00639 concernente vicende relative all’attacco alla stazione di pompaggio dell’ENI in Nigeria (vedi l’allegato A – Interpellanze urgenti sezione 3).
PAOLO CACCIARI. Signor Presidente, ringrazio il Viceministro Franco Danieli. Si tratta del terzo atto di sindacato ispettivo che Rifondazione Comunista presenta in pochi mesi sulla questione della presenza ENI in Nigeria. Credo, quindi, che non serva girare intorno al nodo della questione. Sento il dovere di essere diretto e franco. Oggi, per fortuna, non c’è nessun italiano nelle mani dei ribelli, e possiamo quindi parlare senza timore di nuocere a trattative e di mettere in pericolo la vita di qualcuno.
Ciò che sta accadendo in Nigeria è un’escalation drammatica di uno scontro sociale, politico e finanche armato, tra le popolazioni indigene, da una parte, e le compagnie multinazionali che da quarant’anni stanno sfruttando le immense risorse naturali fossili (gas metano e petrolio) che si trovano nella regione del Delta del Niger.
La Nigeria è il settimo esportatore di petrolio nel mondo. Nella regione del Delta del Niger vivono poco meno di 20 milioni di persone di etnie diverse con antiche civilizzazioni e con livelli di vita eccellenti fino alla comparsa del petrolio. Vi era un ecosistema estuariale delicatissimo di straordinario valore e generosità (foreste di mangrovie) prima che venisse aggredito dalle trivelle, avvelenato dagli spargimenti di greggio, scosso dalle esplosioni che generano per accumulo i gas, inquinato dalle ricadute della fuliggine e delle polveri di combustione dei pozzi e dei gas flaring che vengono selvaggiamente bruciati a cielo aperto.
Osservatori internazionali obiettivi parlano di danni ambientali irreversibili ed estesi: perdita di fertilità dei suoli, riduzione della pescosità, impoverimento della biodiversità. Le poche osservazioni epidemiologiche che sono state condotte parlano di gravi affezioni alle vie respiratorie nei bambini e anche di insorgenze cancerogene.
Amnesty International riferisce di gravi violazioni dei diritti umani da parte dei corpi di sicurezza delle compagnie petrolifere. Parliamoci chiaro: nel Delta del Niger si sta consumando una vera e propria guerra a bassa intensità, con l’esercito dello Stato della federazione della Nigeria che è chiamato a difendere le installazioni, ma non solo. Il Governo e lei, signor sottosegretario, sapete bene che le forze navali USA – i cui comandi di zona sono stati unificati con quelli del Mediterraneo e sono in Italia – sono state sollecitate dalle compagnie petrolifere e, sembra, anche dallo stesso Governo nigeriano, per proteggere le rotte che collegano i pozzi.
La tragica e contraddittoria vicenda di cui parliamo nell’interpellanza in esame si è consumata il 21 giugno nella flow station di Ogboinbiri, un impianto di pompaggio della consociata nigeriana dell’ENI, nello Stato di Bayelsa, con la morte di almeno dodici giovani nigeriani. Si tratta soltanto dell’ultimo scontro avvenuto, anzi, il penultimo. È di ieri la notizia del rapimento di altri cinque lavoratori della Shell.
Ho qui l’elenco, che l’Osservatorio Nigeria, creato da una ONG italiana, tiene aggiornato quotidianamente, degli scontri che si susseguono, e sono impressionanti: una lunga serie di occupazioni di impianti, di sabotaggi di pipeline, di attacchi con distruzione di istallazioni, sequestri di tecnici stranieri, combattimenti con forze militari regolari e irregolari, uccisioni.
I tecnici italiani e i dipendenti di qualsiasi nazionalità della società del gruppo ENI hanno dovuto subire sofferenze e ingiurie intollerabili, che nessun lavoro al mondo dovrebbe contemplare. Chiedo al Governo se nei nostri codici etici è contemplato, per il bene della nostra economia, il sacrificio di vite umane. Poco importa se siano vite italiane o nigeriane, alle dipendenze dirette delle imprese italiane o vincolate da contratti di subfornitura di forza lavoro, se siano ben pagati o malamente sfruttati.
Qui non siamo nel campo del rischio imponderabile, dell’incidente imprevedibile: qui siamo ad operare in una zona di guerra. Credo che il Governo debba accertare direttamente se ci sono le condizioni accettabili per poter svolgere normali attività produttive ed economiche.
Nostro preciso dovere è evitare che possa accadere l’irreparabile. La sicurezza dei cittadini italiani all’estero deve essere attestata da valutazioni impegnative e responsabili dell’autorità di Governo. E questo vale in assoluto, sia che si tratti di turisti attratti da agenzie «avventure», sia che si tratti di lavoratori alle dipendenze di imprese pronte a sfruttare convenienze economiche in capo al mondo.
In questo caso, tuttavia, c’è qualcosa in più che richiede l’intervento del Governo. Voglio essere il più chiaro possibile: l’ENI non è una compagnia business qualsiasi, ma la principale multinazionale italiana, ed è controllata dallo Stato. È la compagnia energetica di bandiera: lavora per noi, guadagna per noi. Abbiamo, quindi, delle responsabilità politiche dirette, se non vogliamo parlare di doveri morali, per tutto quello che l’ENI fa. Scaricare le scelte ENI sull’autonomia del management è operazione pilatesca e, soprattutto, stupida. L’ENI è il nostro biglietto da visita in giro per mezzo mondo, è l’immagine e la politica internazionale concreta dello Stato italiano in tante parti del mondo.
Serve ricordare Enrico Mattei e la sua formula del 75 per cento degli utili nei paesi possessori di materie prime? Le strategie imprenditoriali e i comportamenti aziendali dell’ENI e delle sue consociate in Africa o in Sudamerica, in Nigeria o in Venezuela, in Algeria o in Russia, segnano e qualificano, in positivo o in negativo, le scelte geopolitiche dell’Italia nel mondo. Non credo che l’immagine dell’Italia ci guadagni, quando i dirigenti ENI dichiarano (leggo da il Corriere della Sera del 14 maggio): «noi non cederemo ai ricatti del Governo venezuelano», a proposito della legittima e giustificata volontà del Venezuela di ripristinare piena potestà e libertà d’uso delle proprie risorse naturali. Non è solo una questione politica, che consiglia le compagnie multinazionali che operano nei paesi fornitori di materie prima a favorire gli interessi delle comunità ospitanti.
Anche in Nigeria serve, quindi, una svolta. È necessario voltare pagina. Il nuovo Governo nigeriano – insediatosi con elezioni inattendibili, non avendo avuto la conferma da parte degli osservatori internazionali – aveva suscitato speranze e aspettative anche tra le varie organizzazioni della guerriglia – il Mend (il Movimento per l’emancipazione del Delta), il Joint revolution council, i giovani dell’etnia ijaw – ma la rottura della tregua annunciata l’altro ieri non fa sperare nulla di buono. Serve che il Governo italiano compia dei passi per il riconoscimento politico dei movimenti che da trent’anni lottano per il riconoscimento del debito ecologico maturato nei confronti delle compagnie petrolifere e per la piena sovranità delle popolazioni locali sui loro territori. È necessario avviare un percorso politico di rinegoziazione e ripacificazione dell’area e, per farlo, è necessario dare la disponibilità, pratica e di principio, all’azzeramento e alla moratoria delle attività di estrazione. Servono gesti distensivi. È necessario superare la percezione, che le popolazioni hanno, di una presenza straniera colonialista e predatoria.
Del resto, il loro sviluppo economico e la loro emancipazione da una situazione di miseria – stiamo parlando del paese più popoloso dell’Africa – è l’unica condizione vera, anche per raggiungere uno sviluppo equilibrato nel mondo intero, per evitare migrazioni ed esodi, profughi ambientali e rifugiati in fuga dalle guerre locali. È davvero miope pensare, in un mondo globalizzato ed interconnesso, di poter diventare ricchi noi, portando al nord e in Occidente il petrolio e il gas, magari con l’aiuto delle più sofisticate e costose tecniche di trasporto criogenico, lasciando impoverite le popolazioni autoctone.
È troppo stridente, credetemi, anche per i nigeriani che non sono potuti andare a scuola, vedere prendere la via del mare e dell’esportazione due milioni e mezzo di barili al giorno – tale è la produzione complessiva della Nigeria – e poi non avere la benzina per alimentare il gruppo elettrogeno del proprio villaggio. Voi lo accettereste, noi lo accetteremmo? E se qualcuno di loro tenta di seguire la via del petrolio e del gas, noi li fermiamo e diciamo: il tuo petrolio lo vogliamo, ci serve, ma di te non sappiamo cosa farcene.
Sono molto contento dell’aumento delle disponibilità finanziarie che con il DPEF, signori del Governo, avete stanziato per la cooperazione internazionale, specie in direzione dell’Africa. Tuttavia, mi chiedo, c’è qualche coerente coordinamento tra le azioni politiche del Governo dei diversi dicasteri?
C’è un vecchio motto, che si racconta tra chi fa cooperazione allo sviluppo internazionale, che dice: ad un povero non regalare un pesce, ma una canna da pesca. Vandana Shiva, una biologa indiana grande esperta delle economie di sussistenza, ha perfezionato il concetto, e ha detto: per aiutare i paesi poveri sarebbe sufficiente che i paesi ricchi la smettessero di pescare tutti i pesci del mare.
PRESIDENTE. Il Viceministro degli affari esteri, Franco Danieli, ha facoltà di rispondere.
FRANCO DANIELI, Viceministro degli affari esteri. Signor Presidente, risponderò in maniera articolata all’interpellanza dell’onorevole Cacciari, per cercare di fornire risposte puntuali ai quesiti che ha posto e alle preoccupazioni che ha sollevato.
I frequenti sequestri di dipendenti delle società petrolifere e gli assalti armati alle installazioni dell’ENI nella regione del Delta del Niger sono da sempre seguiti con la massima attenzione dal Governo italiano e costituiscono un tema centrale nei rapporti con le autorità nigeriane.
A seguito degli episodi di sequestro dei nostri connazionali, abbiano intrattenuto intensi contatti con l’ex Presidente della Repubblica nigeriana, Obasanjo. Lo stesso Presidente del Consiglio, Prodi, ha incontrato il Presidente nigeriano in occasione del vertice dell’Unione africana, ad Addis Abeba nel gennaio scorso, e successivamente in marzo, durante una visita di Obasanjo a Roma, a margine di un evento organizzato dalla FAO.
Anche il Ministro D’Alema e chi vi parla hanno ripetutamente sensibilizzato l’ex Presidente Obasanjo sulla questione. Da ultimo, negli incontri a margine del vertice del G8 del 6-8 giugno avuti dal Presidente del Consiglio, vi è stato il colloquio con il neoeletto Presidente nigeriano Yar’Adua, incentrato soprattutto sulle sfide che attendono quest’ultimo sul piano sia politico che economico, con particolare riferimento alla grave situazione in cui versa il Delta. Yar’Adua ha voluto, a questo riguardo, non solo fornire le più ampie dichiarazioni di impegno, aggiungendo che il Delta è al primo posto tra le priorità del suo Governo, ma anche soffermarsi sulla strategia che sta impostando, basata sul dialogo con tutti gli stakeholders e sulla creazione di un indispensabile clima di fiducia reciproca.
In tutte queste occasioni non abbiamo mancato di sensibilizzare le autorità nigeriane al fine di indurle ad intensificare gli interventi a favore delle popolazioni del Delta del Niger, sostenendone l’emancipazione mediante un’effettiva partecipazione ai vantaggi derivanti dall’estrazione del petrolio, di cui quest’area è ricca e da cui la popolazione riceve pochissimi ricavi.
Secondo quanto è stato riferito dall’ENI, la sua filosofia per l’attività estrattiva in Nigeria è stata, fin dagli anni Settanta, quella di migliorare le condizioni di vita delle popolazioni indigene, offrendo la possibilità alle comunità di svilupparsi attraverso un processo di auto-sostentamento costantemente supportato, fornendo le risorse e gli strumenti essenziali quali la disponibilità di energia elettrica e la relativa distribuzione, know-out e tecnologia per i prodotti agricoli. Soprattutto a partire dagli anni Ottanta, l’ENI, attraverso la sua consociata NAOC, ha avviato una politica di sostegno alle comunità locali, nell’ottica di ridurre la loro dipendenza dal petrolio e creare le condizioni necessarie per l’auto-sostentamento nel più lungo periodo.
Allo stesso rispetto per le popolazioni locali si ispirano anche le nuove linee guida sulla politica di sicurezza che l’azienda ha emanato nel 2004. Tali linee richiamano la necessità di gestire il rischio in maniera responsabile, attraverso la diffusione interna di un adeguato livello di consapevolezza, specifiche attività di prevenzione attiva e passiva e la formazione del personale addetto alla vigilanza. Queste linee di condotta estendono l’insieme di principi e norme di comportamento aziendali alle forze di sicurezza che svolgono attività di tutela dei dipendenti e del patrimonio aziendale. E proprio per formalizzare il loro carattere cogente, i principi e i criteri applicativi della politica di sicurezza della società vengono sempre inseriti in tutti i contratti con i fornitori.
Quanto alla lunga e dettagliata lista di domande che l’onorevole interpellante pone sulla dinamica dell’assalto alla flow station (stazione di pompaggio) Agip di Ogboinbiri del 17 giugno scorso, faccio notare che, in molti casi, si tratta di quesiti a cui può rispondere la sola azienda. Riporterò, comunque, gli elementi che abbiamo chiesto e che sono pervenuti al Ministero degli affari esteri, anche in virtù dei consolidati rapporti di collaborazione e del regolare scambio di informazioni esistenti con l’ENI.
Per quanto riguarda la prima domanda, sulle norme di sicurezza adottate dall’ENI in Nigeria, la società ci segnala che tutte le sue installazioni sono protette con recinzioni parziali o totali perimetrali e con sistemi anti-intrusione di tipo passivo (filo spinato). È presente, inoltre, un servizio di guardia privata non armata, normalmente impiegato per la gestione del controllo degli accessi, sotto contratto dell’impresa (la consociata NAOC). La sorveglianza armata, invece, viene curata dal Governo federale, che impiega esercito e marina, stabilendo il numero di risorse da utilizzare e le regole di ingaggio.
Al momento dell’attacco del 17 giugno erano presenti nell’impianto cinquantuno militari, tutti assegnati dal Governo federale nigeriano. Com’è il caso per tutti i distaccamenti militari assegnati alla difesa di impianti petroliferi, essi non rispondevano in alcun modo, da quanto ci è stato segnalato dall’ENI, a funzioni della società, ma rispondevano agli ordini di comandanti militari alle dirette dipendenze dei diversi ministeri. Al momento dell’attacco sono giunti dieci uomini armati a bordo di un’imbarcazione. Nel corso dell’occupazione il numero degli aggressori armati è arrivato ad essere pari a cinquanta. Dopo un breve scambio di colpi d’arma da fuoco (gli aggressori hanno aperto il fuoco per primi), quarantasette soldati sono fuggiti insieme ad alcuni operatori. Lo scambio di colpi d’arma da fuoco durante l’attacco dimostra come l’assalto fosse stato pianificato con l’obiettivo di condurre un attacco armato finalizzato a prendere il controllo dell’impianto e non un’occupazione pacifica.
Come accaduto in altri casi, i miliziani hanno attaccato l’installazione petrolifera e ne hanno preso il controllo per poi avanzare richieste al Governo federale per il rilascio degli impianti. Non conosciamo, ad oggi, le ragioni della permanenza degli assalitori nella stazione, che sembrerebbero collegate al protrarsi dei negoziati fra gli occupanti e le autorità locali.
Il 18 giugno ultimo scorso vi è stata una telefonata tra le autorità dello Stato del Bayelsa ed il management NAOC, nel corso della quale l’ENI si è dichiarata contraria all’uso della forza, per non mettere a rischio l’incolumità dei propri lavoratori. Le autorità hanno assicurato l’impegno a cercare una soluzione pacifica e negoziata della vicenda.
L’esercito nigeriano ha tuttavia deciso, dopo cinque giorni di trattative, di entrare in azione e liberare gli ostaggi. Lo scontro a fuoco sarebbe durato, secondo quanto ci viene comunicato dall’ENI, circa quattro ore, durante le quali gli occupanti hanno opposto soltanto una debole resistenza. Non conosciamo il dato relativo alle vittime tra i militari, pertanto il bilancio definitivo degli scontri non è noto. Gli ostaggi liberati sono nove. Altri due sono rimasti uccisi poiché utilizzati dagli occupanti come copertura per la propria fuga. Buona parte degli operatori e dei minatori erano infatti riusciti a scappare al momento dell’attacco. Nei giorni seguenti, si è potuto verificare che, con la fuga dei quarantasette militari e dei tredici operatori, erano rimasti nella flow station quattro militari e undici operatori.
Quanto all’impatto che hanno avuto le azioni armate e i sequestri di personale sulla produzione petrolifera dell’ENI in Nigeria, l’azienda ci comunica che la NAOC ha dovuto attualmente chiudere quattro flow station, tutte nella zona delle paludi, con una perdita di produzione giornaliera pari a 53 mila barili (di cui in quota ENI circa novemila barili).
Nell’ambito dei futuri contatti con il Governo nigeriano, non si mancherà, ad ogni modo, di continuare a tenere presente la questione del Delta del Niger, anche al fine di sollecitare una riflessione, nell’ambito del nuovo programma di Governo, sui modi migliori per assicurare le indispensabili condizioni di sicurezza degli impianti delle compagnie petrolifere e delle attività delle società italiane che vi operano, che non sono solo società petrolifere, poiché ve ne sono molte altre che lavorano in diversi settori.
Voglio dire in maniera molto chiara all’onorevole Cacciari che una sicurezza può essere assicurata in maniera stabile soltanto con un approccio integrato che consenta un’effettiva partecipazione delle popolazioni locali ai vantaggi derivanti dall’estrazione del petrolio ed una riduzione dei forti contrasti sociali ed economici che caratterizzano la regione.
PRESIDENTE. Il deputato Cacciari ha facoltà di replicare.
PAOLO CACCIARI. Signor Presidente, ho cinque minuti?
PRESIDENTE. Ha dieci minuti di tempo per replicare.
PAOLO CACCIARI. Intanto ringrazio molto il Viceministro Danieli per il suo sforzo di ricostruzione di una vicenda avvenuta in una terra così lontana e così, evidentemente, poco trasparente, non solo per questioni di nebbie estuariali, ma anche per difficoltà di comunicazioni ufficiali. Evidentemente, fatti così gravi non riescono ad essere nemmeno monitorati ufficialmente dalle autorità locali, ivi compreso il riconoscimento dei cadaveri. In quell’area la situazione è davvero instabile, per usare un eufemismo.
Spero, peraltro, che il Viceministro Danieli abbia capito le intenzioni delle nostre continue sollecitazioni al Governo.
Chiederemo al Governo di fare qualcosa di più; in particolare, di non fare, per così dire, il portavoce dell’ENI che, pur essendo una grande multinazionale, una compagnia dello Stato, non è propriamente il corpo consolare, e, conseguentemente, non deve e non può rappresentare l’Italia in quel Paese.
Sono convinto che l’attività diplomatica svolta dal nostro Governo con le autorità nigeriane – i contatti in corso, da quanto ci è stato riferito, tra il nostro Governo e quello nigeriano, in particolare tra il precedente e l’attuale Presidente della Nigeria – sia improntata alla massima serietà e al tentativo di garantire davvero un Governo più responsabile della vita delle popolazioni del Delta.
Anch’io penso che, per esempio, la scelta del nuovo Presidente, il neoeletto Presidente Yar’Adua, di nominare come vicepresidente Goodluck Jonathan, che è di etnia ijaw, la principale etnia tra le popolazioni del Delta, rappresenti un segno di dialogo per quel territorio. Credo però che tutto ciò non basti, non sia sufficiente, soprattutto mi preoccupa un po’ questa delega – mi lasci dire – alla nostra compagnia di bandiera petrolifera.
Le cose che ci ha riferito sinteticamente e che la compagnia scrive nei suoi programmi non mi convincono. Mi lasci fare un conto banale, ragionieristico: i costi che l’ENI – e quando parlo dell’ENI mi riferisco anche alle quattro compagnie sorelle, che stanno sfruttando i giacimenti fossili nel Delta del Niger – sostiene per la protezione armata e le misure di security, ma soprattutto, in termini di mancata produzione, sulle previsioni di sfruttamento, sono giganteschi. Ho fatto qualche conto: le previsioni autorizzate in quota all’ENI sono pari a 150 mila barili al giorno; dopo la recrudescenza degli scontri armati – e lei me lo confermava – l’estrazione di petrolio stenta ad arrivare a 100 mila barili al giorno.
Ho fatto qualche ulteriore conto: se anche fossero, come lei riferisce, 50 mila i barili in meno che vengono estratti, rispetto a quelli autorizzati all’ENI dal Governo nigeriano, si tratta, al prezzo di 65 dollari al barile, di 3 miliardi e 250 milioni di dollari al giorno di mancato sfruttamento, a causa di questioni che attengono alla sicurezza; somma che è molto di più delle royalties che l’ENI deve pagare allo Stato.
Mi chiedo, anche da un punto di vista meramente contabile, se non sarebbe meglio impiegare queste somme per concordare e co-progettare con la comunità locale interventi a sostegno dell’economia locale. Non mi si venga a dire che l’ENI sta già facendo molto: il programma sull’agricoltura che lei ricordava, signor Viceministro, il Green River Project, un programma agricolo integrato, avviato vent’anni fa, è costato quanto la perdita di petrolio di sette giorni, cioè 17 milioni di dollari in 20 anni: sono meno delle briciole, questi aiuti che l’ENI fornisce, mentre è particolarmente antipatico che l’ENI contabilizzi, tra le opere gratuite svolte a fin di bene, il progetto Zero Gas Fleming, per l’eliminazione in atmosfera del gas relativo al combustibile a torce associato al petrolio estratto dai giacimenti.
Tale progetto è stato inserito nei meccanismi flessibili previsti dal Protocollo di Kyoto e permetterà all’ENI di accedere al mercato delle autorizzazioni di emissioni di CO2, consentendole di conseguire un altro bel gruzzolo di quattrini da mettere nel proprio bilancio. Ancora più insopportabile è la propaganda che l’ENI fa dei progetti di difesa della costa contro l’erosione senza tener conto che la subsidenza è provocata proprio dagli emungimenti che compiono le compagnie petrolifere.
Signor Viceministro, ritengo davvero che l’ENI vada convocata, vada messa a un tavolo della cooperazione internazionale e che si miri ad un approccio integrato per far sì che quelle che l’ENI porrà in essere in termini di sviluppo locale, di accompagnamento e di facilitazione dello sviluppo locale possano essere politiche riconosciute davvero come tali.
Quello che conta non è ciò che viene scritto sui giornali, nelle pagine di propaganda dell’ENI, ma quello che viene recepito dalle popolazioni locali. Dato che oggi le popolazioni locali non avvertono questa magnanimità dell’Italia, ma anzi recepiscono un messaggio di colonialismo, di sfruttamento, di depredazione, bisogna compiere un rovesciamento dell’immagine e ciò non può essere compiuto dall’ENI stessa ma deve essere realizzato dal Governo italiano, dalla politica: lo dobbiamo fare noi. Dobbiamo forse accettare quell’invito che varie organizzazioni hanno fatto di creare una commissione indipendente che verifichi la situazione, i livelli di inquinamento, le condizioni di sicurezza, i piani di bonifica, i rapporti di amicizia con le comunità locali, compresi i rapporti informali con le comunità e i villaggi tribali che contano forse di più dei rapporti formali con il Governo federale.
Tutto ciò rappresenta un lavoro politico che andrebbe impostato dal Governo e non dalla nostra azienda di Stato.
Ha sterzato! Nun se pò? Sè fatto un giro. Ma sò sicuro che mò torna. Come la storia.
a grana’ a parte la superficialità dell’affermazione, della serie “è tutto un magna-magna, l’unico bravo che rispetta le regole sono io”, che c’entra quanto dici con la strage di Ogboinbiri?
E va bene, non sarò esatto, pazienza….non voglio essere esatto in queste cose.. l’importante è essere veri.
Nel frattempo so che se chiedo 10 per un lavoro da professionista ( pago pure un’assicurazione) trovo il corrotto tecnico comunale col doppio lavoro che lo prende a 4, o a 2, e succede ormai sempre più spesso: zero qualità, nessuna fattura, tutto in nero. Zero sicurezza sul lavoro (non possono firmare nulla ma conoscono gli ispettori e dividono le mazzette) . E la nave va….e i morti pure…e quelli sì che sono esatti..purtroppo…esattamente circa 4 al giorno sui luoghi di lavoro. I cantieri edili hanno il triste primato delle vittime.
E’ Vero. Ma non è esatto.
L’ENI di oggi è molto più forte, più potente e più “uguale” (in negativo) alle altre grandi Compagnie Multinazionali.
L’ENI di oggi produce (leggi bene: produce) 1.750.000 ( un milione e settecentocinquantamila) barili di olio equivalente al giorno.
(La Nigeria, ottavo esportatore al mondo produce 2 milioni di barili al gg.).
Oggi non ha più senso parlare delle “sette sorelle”.
Le prime 6 compagnie al mondo sono:
EXXON Mobil (Usa)
BP (GB)
Royal Dutch Shell (Anglo-Olandese9
TotalFinaElf (Francia)
ConocoPhillips (Usa)
ENI
Come vedi la geografia è molto cambiata e non è esatta.
Ci sono i grandi colossi statali o ex statali.
PetroChina è un gigante. Gazprom . Ma anche la Pdvsa (Venezuela) o Petrobras (Brasile), la compagnia di Stato Saudita produce quasi 10 milioni di boe al giorno…….
Solo Storia……. A me in fondo interessa solo la Storia. E cerco di capire. Ingenuamente cerco, a volte a fatica, solo di capire la Storia. ENI, fatto secco Mattei tramite Cia e Mafia, ha condiviso una politica di sudditanza economica per 50 anni che ancora oggi esiste. Anche ormai senza motivo. Complici ll Vaticano e la P2, mai morta davvero -Siamo vecchi pure nella critica. Andreotti e Cossiga votano leggi…..I nostri carnefici sono al potere.
Sicuramente un grande manager, uno dei pochi che ha avuto l’Italia… molte luci, ma molte, molte ombre. Sicuramente non un modello.
Ultimamente dentro Rifondazione c’era una linea “matteiana” come modello di gestione delle aziende pubbliche. Una linea che non mi ha assolutamente convinto, anzi ne ero avversario.
Tieni presente che l’Interrogazione Parlamentare che hai visto sopra è stata firmata da 4 Parlamentari di Rifondazione, tra cui il Capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore. A rispondere (con le “veline” dell’ENI) è un Governo di cui Rifondazione faceva parte!?!?
In pratica dentro una nostra azienda di “Stato” all’estero,quindi anche tua e mia, occupata da 5 giorni ,vengono uccise 12 persone, forse armate.. forse civili…forse…
E il nostro Governo non è in grado spiegare che cosa è successo ? O ne da una spiegazione “risibile” evidentemente e palesemente ridicola:
51 soldati armati presidiavano la stazione, arrivano 10 “armati”…poi diventati 50(…lo dice il Governo, forse per “pareggiare”..) occupano la stazione, prendono ostaggi!? E nessuno si fà un graffio ?….via Grillo sei così credulone ?
Ancora. Dove sono i miliziani armati che hanno “sconfitto” 51 soldati e occupato la stazione quando parte il “bliz” per sgomberare.
Neanchè un ferito tra i militari. Dodici morti, fra cui due presunti ostaggi (ce lo dice Danieli) e 10 occupanti ?!!!
Altra incongruenza. Perchè dopo aver “occupato” la stazione e “preso” ostaggi sono rimasti per 5 giorni. Ad aspettare cosa ?
Fa acqua da tutte le parti e il nostro Governo ha girato la testa dall’altra parte, aiutato e spinto dall’ENI.
Ma in tutto questo Mattei che c’entrava?
E leggerei pure questa…..tanto per condividere….
Nell’ormai lontano 1950, quando l’Italia tutta, all’indomani della guerra, si apprestava a gettare le basi che avrebbero consentito il “boom”dei favolosi anni ’60, in Sicilia vengono approvate due leggi regionali che predispongono gli avvenimenti che accadranno di lì a qualche anno e che determinarono, come scrive lo storico Renda “un diffuso clima di speranza”.
Una legge riguardava lo sviluppo industriale e l’altra riguardava la ricerca e la lavorazione degli idrocarburi.
Idrocarburi che compagnie d’oltreoceano come la Gulf Oil, avevano già cominciato a cercare tra le rovine millenarie che punteggiano l’isola.
Gli ampi poteri che erano stati riconosciuti alla regione con l’Autonomia concessa per scongiurare il pericolo del separatismo (pericolo per noi siciliani, non certo per il resto d’Italia: il movimento separatista infatti era ormai saldamente in mano agli agrari ed alla mafia, che tendevano a “conservare” i privilegi feudali) consentivano all’isola di costruire, indirizzandolo, il proprio futuro ed il proprio benessere tanto che fu costituita, dalle forze industriali isolane e prima ancora che industrie vere sorgessero, la SICINDUSTRIA, retta per oltre un decennio da un agguerrito Domenico (Mimì) La Cavera (noto anche alle cronache rosa per aver convolato a giuste nozze con l’allora famosa e bella attrice Eleonora Rossi Drago).
Ma così non fu perché lo stesso anno venne istituita dal governo centrale la “Cassa per il Mezzogiorno”! Un organismo “diabolico” con il quale lo Stato, porgendo “pelosi e caritatevoli” aiuti, si sovrappose alla regione decidendo per essa la qualità e la quantità della crescita meridionale, che doveva essere “compatibile” con l’assetto territoriale dell’Italia e non doveva entrare in competizione con lo sviluppo dell’impianto industriale del nord (i signori della val padana devono buona parte del loro sviluppo industriale proprio a questa istituzione!).
La SICINDUSTRIA si batteva perché protagonista e beneficiaria dello sfruttamento della ricchezza proveniente dalle risorse petrolifere, ancora da accertare, fosse la piccola e media industria siciliana con l’esclusione della grande industria settentrionale ed in ciò era affiancata dalle Sinistre che sostenevano la necessità di impedire ai monopoli industriali del nord di accedere alle risorse finanziarie e alle materie prime della Regione.
Intanto, nel 1953 ad opera della Gulf Oil era stato finalmente trovato il petrolio, a Ragusa, e ciò aveva non solo aumentato l’ottimismo nell’isola ma anche l’immediato interesse delle società petrolifere straniere e della imprenditoria del nord, quella privata nella persona di Angelo Moratti e quella pubblica nella persona del presidente dell’ENI, Enrico Mattei, attento invece a non privatizzare e che finalmente riesce a scendere ed operare nell’isola nonostante l’ostilità dimostratagli dal governo regionale, allora presieduto dall’onorevole Franco Restivo, e del gran guru della Democrazia Cristiana, Don Luigi Sturzo, che favorivano gli interessi della Gulf Oil piuttosto che quelli italiani e siciliani.
Luigi Sturzo
Angelo Moratti…..per altra via ed in altri anni l’Azienda Muccioli della droga.
Enrico Mattei
Gli effetti della scoperta del petrolio si proiettarono immediatamente sul piano politico e i risultati si videro con le elezioni per il rinnovo dell’Assemblea regionale convocate per il 5-6 giugno 1955.
La coalizione conservatrice guidata da Restivo ne uscì sconfitta: scomparve la tradizionale destra agraria, ultimo scampolo di feudalesimo, che era rimasta al potere ininterrottamente fin dal 1943, e circa la metà dei deputati erano “neo-eletti”, volti e nomi nuovi! Una cosa mai vista! Possibile che si potesse veramente cambiare qualcosa?
I rapporti di forza tra i partiti risultarono mutati: la Democrazia Cristiana di Fanfani pur risultando vincitrice rimase al di sotto della maggioranza assoluta mentre a sinistra il blocco del popolo si divise in due liste separate, quella dei comunisti e quella dei socialisti. E questa non è una buona cosa alla distanza!
La DC forte della sua maggioranza relativa, tentò di rimettere a capo della Regione il presidente uscente Restivo, ma a sorpresa, durante la votazione del 27 Luglio 1955, Restivo ottenne solo 35 voti contro i 50 di Silvio Milazzo. Chi era costui? Un DC anche lui, è vero, ma avversario di Fanfani e autonomista intransigente, sul quale convergono i voti di tutta la sinistra e di alcuni franchi tiratori della Democrazia Cristiana, i voti di coloro che credevano nello sviluppo della Sicilia. Il partito ( la DC) però non diede il suo consenso e dopo appena mezz’ora (37 minuti per l’esattezza) Milazzo fu costretto a rinunciare all’incarico.
I successivi scrutini permisero infine l’elezione di Giuseppe Alessi. L’on. Alessi era stato il primo presidente della Regione ma si era presto dimesso in segno di protesta contro l’atteggiamento lesivo del governo di Roma nei confronti dello Statuto autonomista.
Alessi viene eletto grazie all’astensione dei socialisti che servì a bloccare le pressioni della destra e della Curia del cardinale Ruffini. Silvio Milazzo si dovette accontentare della nomina di vice presidente. A quanto pare la volontà degli elettori, siano essi popolari o deputati è sempre un “optional”!
Già nel 1947, dopo la strage di Portella della Ginestra, il risultato elettorale era stato tranquillamente ribaltato.
Nell’ottobre dello stesso anno a Palermo si svolse il convegno del CEPES (Comitato Europeo per il Progresso Economico e Sociale) organizzato dalla Sicindustria presieduta dall’ing. Domenico La Cavera. ”Calano” nell’isola i massimi esponenti dell’industria italiana, da Valletta (Fiat) a Farina (Montecatini) , da Valerio (Edison) a De Micheli (Confindustria) ed i rappresentanti di Confagricoltura e Confcommercio.
Il loro scopo è di ottenere il controllo delle risorse finanziarie (destinate ad accrescersi dopo la scoperta del petrolio) e delle prospettive industriali dell’isola per porle in mano all’iniziativa privata (del nord) impedendone l’accesso a quella pubblica, cioè all’ENI rappresentata da Mattei (ricordo, per inciso, che Enrico Mattei fu vittima qualche tempo dopo di un ”incidente” aereo che a 40 anni di distanza è stato provato essere un attentato!).
Il governo di Alessi non ha vita facile…non è facile “destreggiarsi” neanche per la “destra”, gli interessi sono troppi! Provengono sia dall’interno che dall’estero! Il governo Alessi cade il 31 ottobre 1956 sul voto segreto sulla fiducia, come sempre, a causa di cinque “franchi tiratori” sicuramente democristiani!
Alla presidenza gli succede l’on Giuseppe la Loggia con un governo centrista.
Nella primavera del ’57 a Palermo si svolge, presente Togliatti, il III congresso regionale dei comunisti siciliani. Emergono “strane” cose! Si vuole attuare realmente l’autonomia realizzando una unità trasversale tra le forze lavoratrici classiche, i ceti medi urbani e rurali e la borghesia (ancora legata o meglio sottomessa agli agrari).
Qualche mese dopo, quasi all’unanimità, l’assemblea regionale vota la legge per l’industrializzazione; legge che prevede “provvedimenti straordinari per lo sviluppo”.
La legge prevede contributi per le imprese industriali operanti in Sicilia e la creazione della SOFIS (società finanziaria siciliana) , con poteri d’intervento diretto.
Ma La Loggia paga caro questo accordo con gli autonomisti e con le sinistre, infatti il suo governo viene rovesciato alla prima occasione: al solito all’approvazione del bilancio!
Risulta chiaro a questo punto che la lacerazione è all’interno della DC ed è voluta da Roma!
Per sanare la questione con Roma, La Loggia forma un governo monocolore, solo democristiani con l’appoggio esterno dei monarchici e dei missini (Movimento Sociale Italiano, l’attuale AN).
Siamo tornati indietro! Ma l’anno successivo (1958) è nuovamente anno di elezioni, questa volta politiche. La Loggia e la DC vengono riconfermate, ma c’è subbuglio e in molti non accettano di chinare la testa ai voleri di Roma e degli industriali del nord.
Passano pochi mesi: Silvio Milazzo (ve lo ricordate?) rompe clamorosamente con la Democrazia cristiana e viene estromesso dal partito, ma non si ferma, raccoglie attorno a se tutti i partiti della sinistra, parte dei democratici cristiani e tutti i partiti della destra, compreso l’MSI e i monarchici, e forma un governo che caccia la DC all’opposizione.
E’ incredibile, nuovo e troppo audace! Soprattutto troppo eterogeneo! Ed è troppo poco il tempo per maturare un accordo duraturo sulle strategie comuni da seguire: il primo governo Milazzo si era insediato nell’ottobre del ’58 e di li a qualche mese altre elezioni, le regionali del ’59, incombevano. La campagna elettorale impostata dai democristiani fu all’insegna di “Annibale alle porte”: lo spauracchio dei “comunisti” pronti ad impadronirsi della Sicilia.
Uno spauracchio che ancora oggi, a comunismo scomparso, ha presa su un popolo che mai lo ha subito e che stranamente non teme il fascismo, che ha invece ben conosciuto e sofferto.
E dire che i “comunisti”, pur essendo sostenitori di Milazzo, non avevano neanche un assessorato. Ma contro Milazzo intervenne l’apparato nazionale della Democrazia cristiana che esautorò Fanfani (cambiare per continuare) e lo sostituì con Segni (alla presidenza del consiglio) e con Moro (alla presidenza del partito). Intervenne pure il Sant’Uffizio! Il Cardinale Ottaviani non solo riconferma la scomunica ai comunisti ma la estende ai socialisti e ai cristiano-sociali di Sicilia! Tutti questi provvedimenti servivano ad impedire che la discrepanza siciliana si estendesse in altre regioni, e ci riuscirono.
Il 7 Giugno 1959 si andò a votare. I risultati diedero apparentemente una vittoria a Milazzo che ad agosto riesce a formare il suo secondo governo, ma in realtà si approdò ad una sostanziale parità che impedì a Milazzo di governare, anche per la defezione dei socialisti e dei comunisti. A dicembre all’ARS si vota sul bilancio. Milazzo non ottiene la fiducia per un solo voto! E’ bastato un solo franco tiratore!
L’operazione Milazzo era ormai conclusa nonostante l’estremo tentativo di un governo di centro-sinistra che prevedeva un’intesa tra democratici cristiani, democratici sociali e socialisti. Ma un paio di mesi dopo, siamo arrivati nel febbraio 1960, il secondo governo Milazzo fu fatto cadere in malo modo, vittima di uno scandalo montato ad arte: la così detta “beffa delle Palme” [1].
Da allora il termine “milazzismo” è stato usato per indicare una politica riprovevole (un “inciucio” si direbbe oggi). Il periodo Milazziano durò poco, un anno mezzo appena e con esso si concluse quella fase politica che voleva applicare realmente l’Autonomia della Regione. Da allora in poi la sottomissione ai voleri dell’industria del nord fu pressoché totale e “la Sofis nata con il fine di promuovere la piccola e media industria isolana, poté solo svolgere la funzione del parente povero” (Renda, Storia della Sicilia, pag 1352).
Fara Misuraca
settembre 2006
Note
[1] Uno scandalo organizzato dall’on. D’Angelo. A farlo esplodere è l’on. Santalco che denuncia all’ARS un tentativo di corruzione nei suoi confronti per indurlo a votare per Milazzo. L’episodio si svolse in una stanza dell’Hotel delle Palme dove la polizia, previamente avvertita aveva piazzato i suoi microfoni. Per maggiori dettagli consultare il testo di Nisticò “Accadeva in Sicilia” ed. Sellerio, pp 168-169
Fonti bibliografiche
Dino Grammatico La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo, Sellerio di Giorgianni ed., Palermo
Vittorio Nisticò Accadeva in Sicilia, Sellerio editore, Palermo
Gabriella Portatone Sturzo e l’operazione Milazzo, Leo S.Olschki ed. Firenze
Francesco Renda Storia della Sicilia, Sellerio editore, Palermo
l’immagine di testa è tratta dalla copertina del libro “Accadeva in Sicilia” di Vittorio Nisticò.
Se non si conosce la storia del nostro paese come si può parlare di politica? ….. progredire? Men che meno. Mi rivolgo ai vostri figli quasi maggiorenni, ed a mia nipote Arianna, giovane 18enne appena maturata, che so lettrice del sito. Giovanni cresce nella consapevolezza di tali storture…mica perchè siamo fichi…solo perchè in casa se ne parla e lui recepisce le differenze…..a 30 mesi di vita apre l’acqua del rubinetto al minimo per lavarsi il viso ed i denti da solo. Ha recepito che l’acqua è un bene…. semplice come l’aria. Conosce la differenza tra carta e plastica, i suoi giochi dismessi si portano in parrocchia, ed ora è lui il primo che vuole farlo, e ci cazzia duro, esagerando, quando deroghiamo su un pupazzetto troppo rotto per essere donato.
L’unica cosa che ci rimane è trasmettere i nostri valori e tutta la fortuna del mondo a chi ci vuole bene, ai figli per chi li ha, ed a tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggere sino in fondo.
Se fossi in voi la leggerei meglio.
Edu, Enrico Mattei ti bacerebbe in bocca: e beccateve questa citazione.
Grande manager, capì l’importanza dell’oro nero per l’economia italiana e sfidò le potenti compagnie Usa.
Morì in un incidente aereo che sollevò molti dubbi
ENRICO MATTEI
IL CORSARO DEL PETROLIO
di MARIA GRAZIA MAZZOCCHI
Enrico Mattei nasce ad Acqualagna, un paesino marchigiano con poche centinaia di abitanti, il 29 aprile 1906, primo di cinque fratelli. Acqualagna era salita agli onori delle cronache nel 1901, quando due carabinieri, che avevano incontrato per puro caso il bandito calabrese Giuseppe Musolino, erano riusciti ad arrestarlo perché, fuggendo, questi era inciampato in un filo di ferro sulla strada ed era caduto lungo disteso ai loro piedi. Il padre di Enrico, il brigadiere Mattei, era il diretto superiore di questi due carabinieri (La Serra e Feliziano erano i loro nomi), ed anche a lui ne derivò un po’ di gloria riflessa.
Legatissimo alla madre Angela e alla nonna Ester, fino a tredici anni Enrico vive ad Acqualagna, dove frequenta, senza distinguersi particolarmente, la scuola del paese. Nel 1919, andato in pensione il brigadiere Mattei, la famiglia si trasferisce a Matelica, centro più stimolante e ricco, a metà strada tra Fabriano e Camerino, nel Maceratese, a due passi da Fiuminata. A differenza di Acqualagna, dove la popolazione era dedita essenzialmente all’agricoltura e alla pastorizia, Matelica è un centro dove prosperano diverse aziende, sia pure piccole o piccolissime, che lavorano il ferro, la pietra, la pelle.
Questa atmosfera di laboriosità influenzerà profondamente il giovane Enrico, che, dopo un periodo di relativo sbandamento e di noia profonda per la scuola (fra i tredici e i quindici anni egli si dedica soprattutto alla pesca alle trote nel fiume Esino), si impiega in una fabbrichetta di mobili in ferro con mansioni di verniciatore. Un anno dopo è fattorino alla “Conceria Fiore”: qui il lavoro gli piace di più, e a diciassette anni diventa operaio, poi operaio specializzato, poi aiutante chimico; a diciannove anni è vicedirettore e a venti direttore.
Mattei è sveglio e intelligente, molto incuriosito dai misteri della chimica, molto bravo nel trasmettere a chiunque il suo entusiasmo giovanile e nello sfruttare al meglio il suo inconfutabile fascino personale.
Alla fine del 1928 però la Conceria Fiore deve chiudere i battenti in seguito alla grave crisi economica susseguente alla politica deflazionistica instaurata dal fascismo nel ‘ 26 e Mattei si ritrova senza lavoro.
Egli parte allora per Milano, dove non gli è difficile trovare un posto di venditore alla Max Mayer, già fornitrice alla conceria di Matelica di vernici, smalti e solventi per la lavorazione del cuoio. Anche in questo ruolo, il suo forte carattere gli permette di avere subito successo, e già tre mesi dopo lo troviamo rappresentante esclusivo per l’Italia di un’altra ditta tedesca di prodotti per concerie, la Loewenthal. Questo impiego dà a Mattei la possibilità di approfondire le sue conoscenze sui prodotti chimici, e inoltre lo fa viaggiare per tutta l’Italia. E’ proprio in questo periodo che egli impara a conoscere bene il Paese, i suoi abitanti e le loro caratteristiche.
Un anno dopo, nel 1931, senza per questo abbandonare il suo ruolo commerciale presso la ditta tedesca, Mattei apre una sua piccola fabbrica di emulsioni per conceria, con due soli operai. E’ l’inizio del successo: tre anni dopo la sua azienda è ormai lanciata: conta venti dipendenti e si chiama “Industria chimica lombarda grassi e saponi”. La fortuna gli viene incontro poco dopo, quando egli riesce a mettere a punto un innovativo prodotto per zuccherifici, in grado di sostituire tutti quelli importati.
Dopo gli anni un po’ sbandati della prima adolescenza, Mattei mostra subito la tempra del grande condottiero: il coraggio, la capacità di cogliere al volo ogni possibile opportunità e una grande resistenza agli stress e alla fatica sono le doti che lo porteranno molto in alto negli anni della maturità.
L’affetto per la famiglia di origine rimane sempre di fondamentale importanza per Mattei durante tutta la vita (a Milano si fa raggiungere da due fratelli, ai quali dà lavoro nella sua ditta), così come il legame con la terra marchigiana.
Nel 1936 sposa a Vienna una bella ragazza, Margherita Paulas, ex ballerina di varietà, che gli rimarrà accanto fino alla fine ma che non gli darà eredi, se si esclude un neonato vissuto solo poche ore.
E’ di quei primi anni a Milano l’amicizia profonda di Mattei per Marcello Boldrini, suo vicino di casa in piazza della Repubblica. I Boldrini erano stati vicini dei Mattei anche a Matelica, ma allora solo le due madri si frequentavano. Ora Boldrini, cinquantenne professore di statistica all’Università Cattolica di Milano, prende sotto la sua ala l’intraprendente giovanotto suo conterraneo, e con molta delicatezza lo aiuta a colmare le sue numerose lacune culturali.
Intorno alla Cattolica in quegli anni gravitano molti nomi interessanti, e Mattei impara a conoscerli e a stimarli: Giuseppe Dossetti, Giorgio La Pira, Amintore Fanfani, Enrico Falck, tutti personaggi che giocheranno ruoli importanti nella vita del giovane Enrico.
In quell’ambiente si discute molto anche del ruolo dell’imprenditore cristiano, che si vuole investito di una missione sociale, e delle sue responsabilità verso il popolo, mentre si critica decisamente il capitalismo in favore del ruolo equilibratore dello Stato anche in materia economica. E’ la nuova teoria cristiano-sociale basata sul primato etico sia in politica che in economia.
Mattei si iscrive ad una scuola serale e prende il diploma di ragioniere. Frequenta poi qualche lezione alla facoltà di Scienze Politiche e si avvicina alle dottrine di Roosevelt, di Gandhi, di Peron, di Franco e di Lenin. Nasce in quel periodo anche la sua passione per la pittura del ventesimo secolo, che lo porterà a collezionare molte opere interessanti.
Nel 1943 si avvicina al Partito Popolare e grazie alle sue eccezionali doti di organizzatore nel marzo 1944 gli viene offerto da Orio Giacchi il posto di rappresentante DC nel comando militare del CLN, posto rimasto vacante dopo l’arresto di Galileo Vercesi. Non è facile per il giovane imprenditore decidere un passo come questo, che implica l’entrata in clandestinità, ma dopo averne vagliato attentamente i pro e i contro egli lascia la guida della sua azienda al fratello e accetta la proposta.
Este, Monti, Marconi e Leone sono i nomi che Mattei assume operando nella Resistenza di volta in volta come rappresentante politico del CLN, ufficiale di collegamento partigiano, comandante militare democristiano. Egli viene arrestato il 26 ottobre , ma riesce a fuggire trentasette giorni dopo grazie anche ad aiuti esterni.
Abile manager, Mattei svolge un ruolo di grande utilità all’interno delle forze partigiane curando i collegamenti interni e occupandosi di reperire e di allocare fondi. Alla fine della guerra Mattei affermerà di aver portato le forze partigiane democristiane da soli 2000 uomini a oltre 65.000. Il 5 maggio 1945 egli è in prima fila nel corteo della Liberazione di Milano e riceve la “Bronze Star” dalle mani del generale statunitense Mark Wayne Clark.
Nel 1948 viene eletto deputato nella circoscrizione di Milano-Pavia dopo una campagna elettorale decisamente anticomunista: suo compito del resto era sempre stato quello di sottrarre alla sfera comunista-marxista le forze progressiste per avvicinarle invece all’area cattolica della democrazia cristiana. Quale premio per la sua intensa se pur breve azione nella resistenza, Mattei riceve un ben misero incarico: commissario speciale all’Agip (Azienda generale italiana petroli) col compito di chiudere tutte le attività dell’ente e svenderlo.
Per Mattei però tale nomina è comunque importante. Egli possiede ancora la sua fabbrica di prodotti chimici e riesce a far nominare suo fratello Umberto, che aveva mandato avanti l’azienda durante la sua clandestinità, commissario del Comitato industriale oli e grassi, e il suo amico Vincenzo Cazzaniga commissario del Comitato oli minerali, carburanti e succedanei: La carica di commissario dell’Agip gli interessa anche perché lo mette a contatto con prodotti non troppo lontani dal settore delle attività della sua ditta di Dergano. E del resto le sue conoscenze di chimica e degli oli avrebbero potuto essergli utili anche all’Agip.
L’Agip era stata fondata in epoca fascista, e fino ad allora aveva dato solo dispiaceri al suo padrone: lo Stato italiano. Nata per “cercare, acquistare, trattare e commerciare petrolio”, aveva scavato 350 pozzi non solo in Italia, ma anche in Albania, Ungheria e Romania, senza trovare niente, ed aveva finito per cedere per poco anche quelle piccole concessioni in Iran che avrebbero potuto darle qualche soddisfazione.
Quando Mattei viene nominato commissario, l’Agip era divisa in due, come del resto la stessa Italia: A Roma era ancora in carica un consiglio di amministrazione dell’ente, mentre al nord Mattei aveva giurisdizione sulle attività relative all’Alta Italia: Premevano per la chiusura dell’Agip diverse forze economiche e politiche: innanzitutto gli americani, e in particolare le compagnie petrolifere anglo-statunitensi riunite nel cartello delle “7 sorelle”, decise ad espandere il loro business sul territorio italiano che avevano appena liberato; in secondo luogo le aziende del settore a capitale privato, la Edison di Valerio e la Montecatini, ben attente ad impedire la concorrenza di un ente statale; infine le forze politiche legate al capitale privato e agli aiuti economici americani, nonché i liberali, per principio avversari di ogni intervento statale turbativo della libera iniziativa in campo economico.
Favorevoli al mantenimento in vita dell’Agip, oltre naturalmente ai suoi tecnici e alle sue maestranze, sono gli esponenti della sinistra democristiani, fra cui Gronchi e Dossetti, che sostengono la necessità dell’intervento dello Stato attraverso gli enti pubblici nell’industria e nella finanzia, e che sono decisamente contrari ai grandi monopoli privati.
Appena assunto l’incarico di commissario, Mattei si mette subito a guardare bene dentro quel giocattolo, deciso a non buttare via alcuna chance, nel caso ne avesse individuata una.
A fine giugno incontra l’ingegner Carlo Zanmatti, suo predecessore nel ruolo di commissario Agip e allontanato dal quel posto i suoi precedenti di repubblichino. Mattei ha ormai già capito da solo che l’unico bene rimasto all’Agip è il valore dei suoi tecnici e la loro capacità nell’effettuare ricerche petrolifere. Non è preparato a comprendere quanto gli va dicendo Zanmatti, che gli spiega i pregi del metano per l’utilizzo industriale.
Perché gli parla del metano, quando lui vuole il petrolio?
Zanmatti gli riferisce che nel corso delle ultime trivellazioni, interrotte nel ‘ 44 per l’avanzare del fronte bellico, l’Agip ne aveva trovato tracce promettenti a Caviaga, in Val Padana.
Mattei prende sul serio le informazioni di Zanmatti, va a Caviaga, parla coi tecnici, si fa spiegare tutto sul metano, poi dà via libera all’ingegnere per riprendere i lavori di scavo, in aperta violazione degli ordini ministeriali ricevuti. Una spinta in questa direzione gli viene anche da un’offerta di Giorgio Valerio, che si offre di acquistare per 60 milioni le attrezzature dell’Agip-Alta Italia. “Se Valerio offre tanto”, ragiona Mattei, “allora significa che l’Agip vale molto di più. Forse a Caviaga c’è il petrolio!”.
Mattei ormai ha varcato il Rubicone e mette al lavoro i tecnici dell’Agip, che comunque da mesi erano pagati senza fare niente. A Raffaele Mattioli, della Banca Commerciale, chiede un prestito per finanziare le attività dell’ente. Il suo appello al capo del governo Ferruccio Parri non rimane inascoltato: l’Agip di Roma e quella di Milano vengono unificate e il 17 ottobre 1945. Mattei è nominato vicepresidente. Significa che la ripresa dei lavori a Caviaga viene di fatto approvata.
Nel marzo 1946 il pozzo numero 2 di Caviaga si riempie di bolle: è il metano, che sgorga a 150 atmosfere e aspetta solo di essere incanalato in una conduttura di tubi per essere portato alle industrie da rifornire.
Da questo momento, sempre con l’aiuto di Zanmatti, l’Agip gira a pieno regime e Mattei può già intravvedere i futuri grandi utili che riuscirà ad ottenere dalla vendita del metano.
Le lotte intorno all’ente però non sono ancora finite: il metano della Val Padana comincia a far gola a molti, e le “7 sorelle” tornano all’attacco molto pesantemente anche a livello politico. Mattei però è convinto di dover assicurare all’Italia risorse petrolifere autonome per garantirle così anche l’autonomia politica, e non intende fare neppure un passo indietro.
Il 9 maggio 1947 i suoi avversari riescono a fargli perdere la poltrona di vicepresidente, anche se non ad estrometterlo dal consiglio di amministrazione, e la partita sembra ormai irrimediabilmente perduta per Mattei. Gli americani ottengono l’accesso a tutto il patrimonio delle ricerche Agip e ne prendono visione con molto interesse. Il pozzo di Caviaga viene chiuso e viene venduta la raffineria di Marghera ad una società partecipata dalla British Petroleum. La Edison prepara un piano per trasformare l’Agip in una società posseduta per un terzo dalla Edison stessa, un terzo dall’Agip e un terzo dalla società Metano, partecipata a sua volta dalla Ras e dalla Edison.
Mattei, sempre più convinto che l’indipendenza politica passi per l’indipendenza economica, sempre più sicuro che lo sfruttamento dei giacimenti di un Paese spettino allo Stato e solo allo Stato in favore di tutta la popolazione, rimane sconvolto da questi progetti e si appella ad Ezio Vanoni, illuminato esponente in ascesa della sinistra democristiana. Questi a sua volta si rivolge direttamente al capo del governo, Alcide De Gasperi. In cambio dell’aiuto di Mattei alle vicine elezioni (la DC vincerà col 48% contro il 31% del Fronte Popolare), De Gasperi il 10 giugno 1948 fa eleggere un nuovo consiglio di amministrazione Agip: Mattei è vicepresidente, il suo amico Boldrini presidente.
Il 19 marzo 1949 dal pozzo numero 1 di Cortemaggiore, vicino a Milano, il metano sgorga umido. Si tratta di petrolio, e di buona qualità.
Si scoprirà presto che la quantità di petrolio presente in quel deposito è davvero poca, ma Mattei sfrutta al massimo l’impatto psicologico di quel ritrovamento, riuscendo a sventare nuovi attacchi dei suoi infaticabili avversari, che stavano per far approvare una legge mineraria tale, che “la stessa Standard Oil non avrebbe potuto fare di meglio”.
L’annuncio del ritrovamento petrolifero a Cortemaggiore giunge al momento giusto. “Il giacimento di Cortemaggiore”, dichiara Mattei,”è di un’importanza rilevantissima. Sarebbe oggi difficile calcolarne il valore, che indubbiamente è molto rilevante”. Gli dà una mano anche il Corriere della Sera, con articoli così entusiastici da far salire i titoli delle società Anic e Petroli, le due aziende del gruppo quotate in borsa.
A questo punto il parlamento approva la proposta di Vanoni di riservare allo Stato le ricerche nel sottosuolo della Val Padana, lasciando libertà di ricerca nel resto del Paese. La risposta di Mattei è una forte accelerata al ritmo delle trivellazioni, e i risultati non si fanno attendere: giacimenti di gas vengono individuati a Cornegliano (MI), Pontenure (PC), Bordolano (CR), Correggio (RE), e Ravella.
Oltre ad estrarre il metano, l’Agip deve però pensare anche a trasportarlo, e per fare questo deve posare i tubi del suo metanodotto. Mattei non va certo per il sottile: egli stesso si vanta di aver trasgredito almeno 8000 tra leggi, leggine e ordinanze varie. Il suo metodo consiste nel fare prima, e nel discutere poi. I suoi uomini scavano di notte per posare i loro tubi, e poi di giorno ricoprono gli scavi con molte scuse. A chi protesta, Mattei offre concambi vantaggiosi: il restauro della chiesa, se è il parroco a lamentarsi, l’acquisto del raccolto se sono i contadini a sentirsi danneggiati, la concessione della gestione di una pompa Agip o un posto di lavoro fisso, o anche una raccomandazione a Roma, a seconda dei bisogni. Se il sindaco è comunista, Mattei rispolvera il suo passato di partigiano, a volte si fa amico qualche maresciallo dei carabinieri raccontando gli exploit di suo padre, il fatto è che riesce sempre ad installare le sue strutture in tempi record e quasi sempre senza contestazioni.
Le sue risorse più importanti sono senza dubbio alcuno i suoi uomini, che lo aiutano in tutti i modi. Tutti scelti personalmente da lui, gli sono fedeli e lavorano con entusiasmo, pronti a spendersi senza risparmio. Moltissimi sono di Matelica ( tanto che la sigla della Snam, società creata dall’Agip specificamente per la ricerca, viene tradotta in “Siamo nati a Matelica” ), altri provengono dalle forze dell’ordine, altri dalla Resistenza, altri ancora sono raccomandati da amici influenti, ma tutti gli sono grati e sono pronti a farsi in quattro per lui. Gli riconoscono una indubbia leadership ed ammirano la sua totale dedizione al lavoro.
Da dove provengono i soldi che Mattei usa generosamente per spianare la strada alle attività dell’Agip? Certamente dal metano.
Un metro cubo di metano viene venduto a 12 lire, con un margine medio di guadagno di 8,5 lire al metro cubo, e questi altissimi profitti non risultano da nessuna parte nei bilanci dell’ente. Mattei non utilizza neppure una lira per se stesso, ma profonde denaro a larghe mani per garantirsi coperture politiche e appoggi giornalistici, per legare a sé gli uomini migliori e per acquistare le attrezzature più moderne.
La sua attività continua instancabile: egli si deve continuamente difendere dagli attacchi dei suoi nemici, che tramano per ottenere leggi a loro favorevoli; si prodiga per convincere gli imprenditori ad utilizzare il suo gas anche se ciò comporta l’adattamento dei loro impianti; continua a posare chilometri e chilometri di tubi per i suoi gasdotti; allarga il raggio delle sue trivellazioni.
Per vendere il suo metano, egli utilizza tutti i metodi che aveva imparato quando vendeva vernici e prodotti per concerie: annunci sui giornali, incarichi a piazzisti, l’invenzione di slogan di successo come “Supercortemaggiore, la potente benzina italiana” e logo affascinanti come il famoso cane a sei zampe che sputa fuoco dalle fauci aperte. Ma la benzina Agip è anche di ottima qualità, e le pompe Agip sono nuove e ben attrezzate, i gabinetti sono puliti e il personale offre numerosi servizi gratuiti come la pulitura dei vetri o il controllo dell’olio e dei pneumatici. Pochi anni dopo Mattei importerà dagli Stati Uniti l’idea dei motel, che impianterà su tutto il territorio nazionale per il conforto anche notturno dei viaggiatori.
Tra il 1950 e il 1952 Mattei deve affrontare nuove battaglie a Roma per ottenere la costituzione dell’ ENI (Ente nazionale idrocarburi), di cui diventa presidente nel luglio 1952. Vicepresidente è il suo maestro e amico Marcello Boldrini. Agip, Agip mineraria, Romsa e Snam sono le società guidate dall’ ENI, e Mattei si occupa personalmente di ognuna di loro.
Il 4 marzo 1953 egli si dimette dalla sua carica di deputato in Parlamento per dedicarsi completamente alle sue aziende.
Nel 1954 la sua campagna per la vendita del liquigas in bombole trasforma le abitudini degli italiani: egli toglie l’obbligo di cauzione per le bombole e ne ribassa il prezzo del 12%. I camioncini Agip portano le bombole in ogni casa, anche nei luoghi più isolati, e le famiglie italiane imparano ad apprezzare i vantaggi delle cucine a gas, che vengono a sostituire le molto più impegnative stufe a legna o a carbone.
Producendo fertilizzanti con l’idrogeno derivato dal metano, Mattei ne abbassa il prezzo anche del 70%, mettendo così in grado quasi tutti gli agricoltori di coltivare i loro campi sfruttandone al meglio le possibilità.
Anche il prezzo della benzina viene ribassato, e questa politica dell’ente statale mette in crisi la concorrente Edison, che viene incorporata dalla Montecatini. Sarà poi il successore di Mattei, Eugenio Cefis, a scalare la Montedison per conto dell’ ENI.
Cedendo alle pressanti richieste del suo amico Giorgio La Pira, sindaco di Firenze, e di Amintore Fanfani, Mattei rileva gli stabilimenti Pignone, un’industria meccanica decotta e vicina al fallimento e in pochi anni ne fa una ditta leader nella produzione di tecnologie innovative al servizio della ricerca e dell’estrazione di risorse del sottosuolo, anche utilizzando piattaforme marine.
A questo punto a Mattei resta un solo vero problema: il petrolio di Cortemaggiore non è certo abbondante, e lui ha grosse difficoltà a reperirne all’estero, dove il cartello delle 7 sorelle non gli lascia spazio.
Il suo tentativo di approfittare della crisi tra il governo iraniano e la British Petroleum offrendo allo Scià un contratto vantaggiosissimo non passa, e neppure riesce ad entrare nel consorzio di Abadan per l’opposizione decisa delle grandi compagnie che lo considerano un avventuriero, un “petroliere senza petrolio”. Ma ogni affronto fatto all’ ENI è per Mattei uno sgarbo all’Italia, egli ne soffre e attende il momento per rifarsi.
Il 12 aprile 1956 inaugura il villaggio di Metanopoli alle porte di Milano, il 21 dello stesso mese esce il primo numero de “Il Giorno”, quotidiano finanziato dall’ ENI e diretto da Gaetano Baldacci, brillante e spregiudicato giornalista marchigiano, sempre controllato molto da vicino da Mattei.
Oltre ad essere una evidente cassa di risonanza dei successi dell’ ENI, iI Giorno apre una svolta nel giornalismo italiano: vivace e innovativo negli articoli e nelle fotografie, raggiunge in certi momenti tirature altissime, anche se a fronte di costi sempre esagerati.
La linea politica de Il Giorno propone un avvicinamento ai Paesi africani e mediorientali in contrasto con le strategie dei Paesi ex colonialisti, Francia e Gran Bretagna. Gli Stati Uniti guardano con preoccupazione questa linea, condivisa dal presidente Gronchi, da Amintore Fanfani e dal ministro per gli affari esteri Pella, denominata “neoatlantismo”.
Dopo essere riuscito a fare approvare l’11 gennaio 1957 una legge mineraria che garantisce all’ENI libertà di azione in Italia e all’estero, Mattei dedica tutte le sue energie a tessere rapporti sempre più stretti con i Paesi produttori. Lo troviamo in Egitto, in Iran, in Libia, in Giordania.
Mattei non si sente affatto legato alle regole tradizionale dei contratti fino ad allora portati avanti dalla compagnie petrolifere americane e inglesi, e non ha remore ad offrire ai Paesi produttori condizioni molto più favorevoli.
Rompendo con l’abituale percentuale del 50%, egli arriva ad offrire fino al 75% , e in più fa dei Paesi produttori i suoi partner in imprese di cui lui solo sopporterà i rischi. Egli offre tecnologia, borse di studio per le sue scuole di formazione a Metanopoli, partecipazione nei riguardi delle aspirazioni di riscatto di questi Paesi ritenuti da altri arretrati e poco civilizzati.
Mattei piace ai leader dei Paesi produttori perché, diversamente dai petrolieri delle 7 sorelle, egli non si rivolge a loro con quell’atteggiamento di superiorità tanto inviso ai Paesi in via di sviluppo in quanto carico di echi colonialisti. E questi Paesi non considerano l’Italia un Paese ex colonialista.
Mattei sa di avere bisogno di quel petrolio che non ha potuto trovare nel sottosuolo italiano, e guarda ai Paesi esportatori con vivo interesse e anche con rispetto. Egli non si sente intrinsecamente superiore ai suoi interlocutori mediorientali o nordafricani, ma anzi è pronto ad ingaggiare con loro una sfida intelligente volta alla conclusione di affari vantaggiosi per entrambe le parti in causa. Egli sa bene che gli accordi capestro creano a lungo andare solo nemici, e vuole seriamente instaurare buone relazioni con questi Paesi.
La politica estera di Mattei mette spesso a disagio il governo italiano (molto più timoroso e tradizionalista di lui), sempre preoccupato di pestare i piedi alle grandi potenze.
Come scrive Nico Perrone nel suo libro su Mattei, ” i progetti di Mattei talvolta andavano oltre il campo degli affari… Essi ipotizzavano persino la promozione di una federazione non vincolata (loose federation) fra Marocco, Algeria, Tunisia, ed eventualmente Libia, in vista di una associazione di cooperazione e sviluppo coi Paesi europei… In questa federazione, strana e un po’ confusa, Mattei pensava di coinvolgere gli Stati Uniti e persino l’ URSS, volendo tuttavia conservare all’Italia una funzione di iniziativa e di leadership”.
A Tunisi Mattei installa la sede di un “Ufficio per le relazioni con la stampa in Africa del Nord”, incaricato dei rapporti con il Fronte di Liberazione Nazionale algerino, mentre più tardi istituirà a Beiruth un “Ufficio per le relazioni con la stampa nei Paesi del Medio Oriente”.
Nel 1957 Mattei riesce a chiudere un sospiratissimo contratto con l’Iran: nelle trattative egli aveva offerto persino una visita ufficiale del presidente della Repubblica italiana in Iran e, pare, la mano di Maria Gabriella di Savoia per Reza Pahlavi. In Iran l’ Eni può ora effettuare le sue ricerche in tre zone, anche se molto impervie, due addirittura in mare. Ma il vero successo di Mattei sta nell’aver fatto breccia nel sistema monopolistico anglo-americano, e questo egli lo sa bene. Anche se non riesce subito ad ottenere concessioni in Iraq e in Libia, si consola in Marocco, dove il re Maometto V intesse buoni rapporti con lui, e con le aperture che gli offrono i rivoluzionari algerini nel loro Paese. Nel 1958 arriva una piccola commessa anche in Giordania.
La troppo disinvolta gestione dei fondi ENI espone Mattei ad attacchi violenti in patria e a molte critiche, che sfociano in una pericolosa campagna stampa sostenuta contro di lui e ispirata dalle 7 sorelle. Altri attacchi gli arrivano per la partecipazione dell’ ENI alla costruzione della centrale nucleare di Latina e per essersi nascosto dietro una anonima “Compagnia di ricerche idrocarburi” per rientrare in rapporto con la Libia. Ormai nulla può però fermare Mattei, che gioca su così tanti tavoli, da poter sempre bilanciare una sconfitta con altre vittorie. Ottiene infatti permessi di scavo in Cirenaica, e si muove anche in Sicilia, territorio a lui finora precluso dalla legge mineraria nazionale. Il suo appoggio al deputato regionale Silvio Milazzo gli apre subito la via ai primi scavi dell’ ENI nell’isola.
Guardando all’ Europa, dà l’avvio ad un ambizioso progetto di oleodotto da Genova all’Inghilterra, attraverso la Svizzera, la Germania, la Francia, anche se è ancora troppo presto per aver ragione del fronte degli industriali europei.
Il suo attivismo non ha più limiti: l’ ENI acquista la “Lanerossi” entrando così nel settore tessile e la “Società italiana vetro”, per affacciarsi anche nel settore vetrario. Ottiene concessioni di ricerca petrolifera in Somalia, Egitto, Iran, Marocco, Libia, Sudan, Tunisia. Riesce ad introdursi perfino in Cina, dove firma un accordo per la consegna di fertilizzanti.
Le reti di distribuzione (4.434chilometri di metanodotti in Italia nel 1962) si snodano in Africa dalla Costa d’Avorio all’ Etiopia, dal Marocco al Senegal, dal Ghana alla Somalia, dalla Tunisia al Sudan; in Asia in Libano, Giordania, India, Iran, Iraq, Pakistan; in America latina, in Argentina.
Dopo una visita di Mattei in Unione Sovietica, si aprono le frontiere di questo grande Paese per i contratti con l’ ENI, e il primo contratto alla fine del 1960 prevede l’acquisto di petrolio (vedi nota in fondo – Ndr) in cambio di gomma sintetica, tubi e apparecchiature tecnologiche avanzate per la ricerca e l’estrazione.
In un certo senso Mattei non può essere considerato estraneo ad un avvenimento politico ed economico di grande importanza: la nascita, il 9 settembre 1960, dell’OPEC, Organisation of Petroleum Exporting Countries, cui aderiscono Iran, Arabia Saudita, Iraq, Kuwait, Venezuela.
L’OPEC infatti è la riprova di una nuova presa di coscienza del proprio ruolo da parte dei Paesi produttori, e Mattei ha giocato un ruolo fondamentale dimostrando loro che i “dictat” delle 7 sorelle non erano inconfutabili.
Le scuole di Metanopoli ospitano ormai studenti provenienti da tutti i Paesi con cui l’ ENI ha rapporti, e Mattei sa che questo investimento darà i suoi frutti negli anni a venire, quando i suoi ex-allievi avranno raggiunto posizioni preminenti nei loro Stati.
Nel 1961 la prima petroliera italiana carica di petrolio iraniano estratto dall’Agip attracca nel porto di Bari: è un grande successo personale per Mattei!
Nel 1962 l’ ENI dà lavoro a 55.700 persone, investe 209 miliardi, ne fattura 357, possiede 15 petroliere e guadagna 6 miliardi ufficiali, ma probabilmente più di 50. I debiti ammonteranno, nel 1963, a 700 miliardi di lire.
Si tratta di un colosso con interessi in mezzo mondo, guidato da un solo uomo, che ne tiene strettamente in pugno i destini.
Troppo potere, troppo denaro, troppi onori, troppi nemici.
Alle 18,55 del 27 ottobre 1962 l’aereo di Enrico Mattei, in avvicinamento all’aeroporto di Linate proveniente da Catania, si schianta al suolo vicino a Bascapé, in provincia di Pavia.
Era ai comandi un esperto pilota, il comandante Bertuzzi, con Mattei dal 1958.
Disastro o attentato? Il dilemma non sarà mai risolto, anche se suona molto sinistro il fatto che pochi giorni prima fosse stato trovato un cacciavite “dimenticato” nella presa d’aria di un motore.
Certo la morte ha fermato Mattei nel pieno delle sue attività, impedendogli di portare a termine molti progetti che i suoi successori non saranno in grado di completare.
Avrebbe potuto realizzarsi quel riscatto dei Paesi del terzo mondo per il quale Mattei aveva speso tante energie? Avrebbe potuto l’Italia, forte della sua posizione geografica, giocare un ruolo di rilievo in politica estera nei confronti dei Paesi affacciati sul Mediterraneo e in Medio Oriente?
Certamente Mattei è stato uomo di grandi visioni strategiche e dotato dell’energia e del coraggio necessari per portarle avanti, capace di muoversi nella giungla della politica italiana e pronto a dare fiducia al nuovo che si stava affacciando sulla scena mondiale.
MARIA GRAZIA MAZZOCCHI
Bibliografia
* Storia della prima Repubblica – L’Italia dal 1945 al 1998, di Aurelio Lepre – Ed. Società Editrice Il Mulino, Bologna 1999.
* C’era una volta la prima Repubblica – Cinquant’anni della nostra vita, di Sergio Zavoli – Arnoldo Mondatori Editore, collezione Oscar, Milano 1999.
* Enrico Mattei, di Nico Perrone – Società Editrice Il Mulino, Bologna 2001.
* Il miracolo Mattei – Sfida e utopia del petrolio italiano nel ritratto di un incorruttibile corruttore, di Luigi Bazzoli – Rizzoli Editore, Milano 1984.
* Storia della Repubblica Italiana, di Giorgio Bocca – Rizzoli Editore, Milano 1981.
* Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi – Società e politica 1943-1988, di Paul Ginsborg – Giulio Einaudi Editore, collana Gli Struzzi, Torino 1989.
* L’Italia del Novecento – Un viaggio lucido e disincantato attraverso il Ventesimo secolo, di Indro Montanelli e Mario Cervi – Ed. RCS Libri, Milano 2000.
Questa pagina
(e solo per apparire su Cronologia)
è stata offerta da Franco Gianola
direttore di http://www.storiain.net
NOTA: Su Mattei ricordiamo una data: il 12 NOVEMBRE 1960 – Quando un duro attacco fu sferrato dal New York Times all’Italia. Prima indirettamente poi direttamente tirava in causa ENRICO MATTEI che dopo il viaggio a Mosca (fra l’altro con il Capo del Governo, il che aveva dato un clima di ufficialità alla visita e quindi all’accordo) aveva concluso con la Russia un’importante contratto di forniture di idrocarburi; e aveva concordato la costruzione di un gigantesco metanodotto che avrebbe dovuto arrivare fino in Italia; Mattei si era così aggiudicato il 20% del fabbisogno energetico dell’Italia e fra l’altro a un prezzo inferiore al 20% del mercato mondiale.
In particolare all’Italia – il New York Times – gli si rimproverava “di non mantenere i patti stipulati nel dopoguerra”, e rimproverava Mattei “di avere rotto gli equilibri del mercato dei prodotti petroliferi, scavalcando e danneggiando con la sua egoistica autonomia non solo gli interessi delle grandi compagnie (le 7 sorelle), ma anche di… avere compromesso futuri equilibri politici”. Capito?