Vi invito a leggere un interessante dossier sul Delta del Niger preparato da Stefano Liberti (che ne ha autorizzato la pubblicazione in anteprima). Stefano è il giornalista del Manifesto che l’anno scorso intervistò gli ostaggi italiani (dipendenti dell’ENI) mentre erano in mano ai guerriglieri del Mend.
Delta del Niger, una polveriera piena di petrolio
La tensione nella regione sud-orientale della Nigeria è nuovamente altissima. Le speranze suscitate dall’elezione del presidente Umaru Yar’Adua si stanno spegnendo. Dopo un avvio di negoziato con i gruppi militanti, che hanno decretato una tregua, il governo non sembra avere una strategia coerente. Protagonisti, problemi e retroscena della crisi del Delta, che rischia di esplodere trascinando nel caos il più popoloso Paese africano.
Stefano Liberti
Tra annunci di tregue, negoziati più o meno mediatizzati, attacchi dei ribelli e raid dei soldati, il Delta del Niger è di fronte a un bivio: l’atteggiamento che terrà il governo, se sopravvivrà nei prossimi giorni ai ricorsi presentati contro le presunte irregolarità delle elezioni dell’aprile scorso, e la risposta dei gruppi militanti diranno se il Delta potrà avviarsi verso una qualche forma di normalizzazione e di sviluppo o se appare destinato a scivolare verso un’anarchia che non conviene a nessuno. Oggi, la situazione sembra sospesa, soprattutto per l’incapacità dell’amministrazione guidata dal presidente Umaru Musa Yar’Adua, entrato in carica nel maggio scorso, di mostrare una strategia coerente per la risoluzione dei vari problemi che colpiscono la regione.
Composto da nove stati (Abia, Akwa Ibom, Bayelsa, Cross River, Delta, Edo, Imo, Ondo, Rivers), il Delta del Niger è la cassaforte del petrolio della Nigeria, ottavo esportatore mondiale e primo produttore dell’Africa sub-sahariana. La sua importanza per il Paese è vitale: il petrolio è responsabile del 95 per cento delle esportazioni e dell’80 per cento del Prodotto interno lordo della Federazione nigeriana. Ciò nonostante, negli stati produttori la qualità della vita è più bassa che nel resto del paese e i servizi e le infrastrutture sono più carenti che altrove: tanto per fare un esempio, negli stati di Delta e Bayelsa, c’è un dottore ogni 150mila abitanti (a fronte di una media nazionale di 20 medici ogni 100mila abitanti). A questo si aggiungano i danni subiti da un ecosistema fragile come quello di una foresta alluvionale di mangrovie in conseguenza dello sfruttamento del greggio: acque inquinate, fauna distrutta, forti emissioni di anidride carbonica e piogge acide, senza contare il gas flaring, la pratica che consiste nel bruciare “a torcia” le emissioni di gas associate all’estrazione del greggio, con la creazione di vere e proprie torri di fuoco (1).
Da Ken Saro-Wiwa alle azioni del Mend
Questa situazione ha alimentato le rivendicazioni di attivisti e di gruppi militanti armati, che nel corso degli ultimi anni hanno moltiplicato le proprie richieste, da una più equa ripartizione dei proventi del greggio – a partire da un aumento del principio di derivazione, secondo il quale spetta ai singoli stati il 13 per cento delle ricchezze da loro prodotte (2) – fino a un’azione più decisa contro il gas flaring. Dopo la protesta non violenta contro la multinazionale anglo-olandese Shell guidata dallo scrittore ogoni Ken Saro Wiwa, fatto impiccare dal dittatore Sani Abacha nel 1995, la militanza nel Delta del Niger ha assunto una forma più violenta, con il proliferare di diversi gruppi armati, le cui tecniche di guerriglia vanno dall’attacco agli impianti petroliferi al rapimento di tecnici stranieri. I gruppi armati sono oggi prevalentemente formati da giovani ijaw (l’etnia maggioritaria del Delta) e affondano le proprie origini nelle organizzazioni cultiste, società di mutuo soccorso nate in ambito universitario e diffuse in tutta la Nigeria (3).
Negli ultimi due anni, la capacità operativa di questi gruppi è sensibilmente aumentata, tanto che sono riusciti a infliggere una riduzione fino al 20 per cento della produzione di greggio della Nigeria (con un conseguente notevole danno economico, solo parzialmente compensato dagli alti corsi del barile sui mercati mondiali) e a causare un ritiro graduale delle operazioni da parte di alcune multinazionali. A questa maggiore incidenza sul terreno, si è andata sommando una crescente mediatizzazione della situazione nel Delta, supportata dalla strategia di comunicazione del Movimento per l’Emancipazione del Delta del Niger (Mend) e dagli spettacolari sequestri di tecnici stranieri operati da gruppi che a tale sigla si rifacevano. Nato tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006, il Mend è una sigla-ombrello di riferimento in cui si riconoscono diverse cellule indipendenti di combattenti, molti dei quali transfughi della Niger Delta People’s Volunteer Force (Ndpvf), organizzazione fondata e guidata da Alhaji Dokubo-Asari, leader fatto incarcerare dall’ex presidente Olusegun Obansanjo nel settembre 2005 con l’accusa di alto tradimento e recentemente liberato su impulso del governo di Yar’Adua. Nel corso del 2006 e del 2007, il Mend ha saputo guadagnarsi grande risalto sulla stampa internazionale, grazie ai rapimenti e ai contatti via e-mail stabiliti con i giornalisti dal suo portavoce, che, firmandosi con il nome di battaglia di Jomo Gbomo, informava il mondo delle azioni del gruppo, spesso annunciandole in anticipo, e coniugava una retorica radicale a una prosa articolata e infiammata. Le azioni del Mend e di altri gruppi che non si rifacevano a questa sigla hanno portato scompiglio nella regione, in un momento in cui il presidente uscente Obasanjo, giunto a fine mandato e falliti i tentativi di emendare la costituzione per ripresentarsi, sceglieva la via dello scontro militare, rafforzando gli effettivi della Joint Task Force (Jtf), la sezione dell’esercito incaricata delle operazioni speciali nel Delta.
Proprio l’elezione di Yar’Adua, e soprattutto quella del suo vice Goodluck Jonathan, membro degli ijaw ed ex governatore dello stato di Bayelsa, aveva acceso le speranze di un approccio diverso al problema del Delta. Le premesse sembravano effettivamente promettenti: nel suo discorso di investitura Yar’Adua aveva posto il Delta in cima alle priorità dell’azione di governo. Pochi giorni dopo la sua entrata in funzione, l’amministrazione Yar’Adua-Jonathan dava seguito a una delle principali richieste dei militanti: la liberazione di Dokubo-Asari e quella dell’ex governatore di Bayelsa Diepreye Alamieyeseigha, in carcere con l’accusa di corruzione. Subito dopo, attivava un binario di dialogo con i gruppi militanti: con una mossa altamente simbolica, Jonathan si recava, per la sua prima tournée in giro per il paese dopo l’elezione, nel campo ribelle di Okerenkoko, nel Delta State, senza scorta né protezione militare. Qui chiedeva ai militanti di deporre le armi, promettendo progetti di sviluppo e posti di lavoro per tutta la regione. Pochi giorni dopo, il governo nominava un Comitato per la risoluzione de conflitto e per la pace nel Delta del Niger che, guidato dall’ex senatore David Brigidi (esponente di spicco della comunità ijaw con un buon seguito tra i militanti), aveva il mandato di stabilire un percorso negoziale raccogliendo le richieste dei militanti. I vari gruppi, sia pur da prospettive differenti e piuttosto disuniti al proprio interno, sospendevano le operazioni. Finché il 3 settembre Henry Okah, uno dei leader del Mend, veniva arrestato in Angola, mentre si imbarcava all’aeroporto di Luanda. Rimasto in carcere diversi mesi, Okah è stato estradato in Nigeria il 14 febbraio.
L’arresto di Okah, da molti ritenuto null’altri che Jomo Gbomo, ha scatenato la violenta reazione del Mend, o almeno di una fazione di esso, quella attiva nel cosiddetto asse orientale, che copre parte degli stati di Rivers e di Bayelsa. Il movimento ha rotto la tregua, portato avanti una serie di attacchi e chiesto l’immediata liberazione di Okah, descritto come “un attore silenzioso della lotta del Delta del Niger”. La cattura di Okah-Gbomo (anche noto con il soprannome “master”) ha scompaginato le carte e portato alla luce le divisioni tra i gruppi ribelli – in un memoriale , il leader del Mend è stato accusato da Dokubo-Asari di essere un “criminale che ha approfittato della lotta per arricchirsi” – ma ha soprattutto evidenziato le contraddizioni in seno all’amministrazione federale. Diversi organi di stampa nigeriana hanno infatti riportato, senza essere smentiti, che al culmine dei suoi sforzi negoziali durante l’estate scorsa, il vice-presidente Jonathan è andato a Johannesburg, dove Okah vive, per incontrarsi con lui.
Un atteggiamento schizofrenico da parte del governo federale che è stato confermato da altre mosse. La più eclatante è stata, nel mese di dicembre, l’azione degli uomini della Joint Task Force (Jtf) contro alcune postazioni a Okrika del leader ribelle Ateke Tom, che pure aveva accettato il principio di una tregua. La sfiducia dei ribelli è salita poi alle stelle quando è poi emerso un memorandum segreto in cui il responsabile della Jtf nel Delta del Niger descriveva nel dettaglio le azioni necessarie per “mettere in scacco i militanti”. Questo memorandum – in cui venivano annunciati sia gli attacchi contro Ateke Tom che una serie di altre operazioni apparentemente casuali ma in realtà pianificate nel dettaglio – mostrava come il governo aveva già intrapreso l’idea di un’azione militare contro quelle stesse persone con cui stava negoziando .
La debolezza strutturale di Yar’Adua
Il governo di Yar’Adua non sembra avere la legittimità necessaria per imporre una soluzione condivisa del problema del Delta. Senza contare che l’inestricabile intreccio di interessi particolari, coinvolgimento di personaggi politici locali (i diversi gruppi militanti sono stati foraggiati e armati dai vari rivali politici per i propri fini elettorali), la connivenza delle grandi multinazionali del petrolio (che spesso pagano una “tassa di non ingerenza” ai militanti per non essere importunati) ha pervaso tutta la regione del Delta di un senso di diffusa illegalità, in cui hanno finito per prosperare anche gruppi che con la militanza politica hanno poco a che vedere. Nel corso dei vari incontri negoziali – l’ultimo dei quali è avvenuto nei giorni scorsi, con una nuova missione di Jonathan in un campo ribelle – i gruppi hanno perso fiducia. Non credono più che Yar’Adua faccia sul serio e minacciano ormai apertamente un’imminente ripresa delle ostilità.
Il governo nel frattempo è bloccato, in attesa della decisione della Tribunale elettorale, che dovrà pronunciarsi sui ricorsi presentati dai candidati sconfitti delle elezioni del 21 aprile, Atiku Abubakar e Muhammadu Buhari. Se il ricorso sarà accolto, la Nigeria si ritroverà senza un presidente e con la necessità di organizzare una nuova tornata elettorale in fretta e furia. Questo possibile vuoto di potere ha esacerbato le tensioni nel Delta, rafforzando la sensazione che nonostante le intenzioni dichiarate, i leader di Abuja non volessero realmente negoziare ma stessero semplicemente prendendo tempo. In effetti, l’atteggiamento dell’amministrazione Yar’Adua appare di difficile comprensione: il governo è al momento indeciso, o incapace di stabilire una propria strategia d’azione rispetto al Delta. Le richieste di Yar’Adua, in un recente viaggio a Washington, di un maggior coinvolgimento statunitense nel Golfo di Guinea e nel rafforzamento della Gulf of Guinea Guard – l’iniziativa statunitense di pattugliamento del Golfo di Guinea – sembrano andare nella direzione di una militarizzazione crescente del territorio, una strategia che si è mostrata perdente già all’epoca di Obasanjo. Al contempo, la nuova missione di Jonathan tra i militanti sembra indicare che la via del negoziato rimane un’opzione aperta.
A questa indecisione a livello centrale, si somma la difficoltà di trovare un interlocutore unico tra le organizzazioni militanti. La stessa strutturazione dei gruppi, riuniti in una galassia composita in cui è difficile evidenziare una leadership definita, rende complesso un negoziato in cui ognuno ha una propria parte da rivendicare. L’arresto di Okah – e la sua probabile messa in stato d’accusa – ha complicato ulteriormente il quadro: se da una parte ha fatto uscire di scena una figura considerata “radicale”, dall’altra ha privato il governo di un referente che sicuramente aveva un certo seguito, soprattutto negli stati di Rivers e Bayelsa. L’unico leader militante oggi in grado di unificare un minimo i ribelli, almeno nella sua zona, è Government Ekpemupolo, detto Tom Polo, un attivista ijaw che controlla le milizie nella regione di Warri, Delta State. Noto con il soprannome di “generalissimo”, Tom Polo è il ponte che ha aperto il negoziato con Jonathan, che ha fornito tutte le garanzie per la sue visite nei campi e che mantiene il Delta State in una situazione di relativa quiete, in base a un accordo di non belligeranza con il nuovo governatore Emmanuel Uduaghan. È Tom Polo che sta discutendo con Brigidi e che per il momento mantiene i suoi uomini calmi. Ma Polo ha scarso seguito nello stato di Rivers, che appare nuovamente scosso dagli attacchi. Soprattutto, la pazienza dei militanti si sta esaurendo e probabilmente lo stesso “generalissimo” – che mantiene ottimi rapporti con tutte le gerarchie al potere – dovrà riprendere alcune istanze radicali se non vorrà perdere consensi.
Quale soluzione?
La situazione nel Delta sembra oggi sospesa, tra un governo privo di legittimità e una galassia di gruppi ribelli che stenta a trovare una leadership. Ma, nonostante la varietà delle sue componenti, gli attori locali coinvolti nel negoziati (sia i gruppi armati come il Mend che le organizzazioni ad essi legati come lo Ijaw Youth Council) possono trovare un accordo su un minimo comun denominatore di richieste. I nodi centrali di un possibile accordo sono due: 1) la concessione di un’amnistia generale per i militanti in carcere o per quelli soggetti a restrizioni di movimento; 2) l’aumento del principio di derivazione e l’incremento delle risorse destinate a livello locale a progetti di sviluppo. In una lettera aperta scritta al presidente Usa George W. Bush durante la sua recente tournée in Africa, il Mend ha proposto un piano di pace in 11 punti, che passa per la mediazione di Okah e prevede un controllo rigido – sotto una supervisione internazionale – sui proventi del petrolio, che dovranno essere usati per “programmi specifici per risollevare le comunità dalla miseria”. Altri attivisti ijaw, come il presidente dell’Ijaw Monitoring Group (Img) Joe Evah sostengono che il negoziato dovrebbe partire dalle raccomandazioni contenute nel rapporto di Ogomudia del 2002. Tale rapporto, risultato di una commissione speciale presieduta dall’allora capo di stato maggiore, generale Alexander Ogomudia, raccomandava un immediato incremento del principio di derivazione dal 13 ad “almeno il 50 per cento” e il ritiro delle leggi sul petrolio e sulla terra (che, approvate rispettivamente nel 1969 e nel 1978, affidavano il controllo di queste due risorse pienamente al governo federale). Consegnato al presidente Obsanajo nel febbraio 2002, questo rapporto è rimasto lettera morta.
È da questi punti che il governo Yar’Adua, se rimarrà effettivamente in carica, dovrà partire. Gli anni passati hanno dimostrato che l’opzione militare non è praticabile, così come poco praticabile è l’ipotesi di avvalersi di un aiuto esterno (magari statunitense) che non farà che aumentare ulteriormente la tensione. L’unica soluzione rimane un negoziato e la prosecuzione di quel percorso avviato effettivamente durante i primi mesi dell’amministrazione Yar’Adua e poi bruscamente interrotto. I prossimi giorni saranno cruciali per capire cosa accadrà quest’anno nel Delta: innanzitutto ci diranno se il governo Yar’Adua-Jonathan rimarrà al potere fino alla scadenza del suo mandato nel 2011 o se invece la Nigeria si avvia verso una nuova e difficile fase di transizione elettorale. Poi ci diranno, nel caso in cui i ricorsi saranno respinti, se il governo avrà il coraggio politico di affrontare quello che è oggi il principale problema della Nigeria e di tutta la regione e saprà disinnescare quell’immensa polveriera che è il Delta del Niger.
(1) Una sentenza dell’Alta Corte nigeriana ha definito, nel 2004, il gas flaring una prassi illegale. Il governo ha concordato con le compagnie petrolifere la data del 2008 per porvi fine. Ma questa scadenza sarà probabilmente spostata. A causa del gas flaring, la regione del Delta del Niger produce da sola ben 70 milioni di tonnellate di CO2 all’anno, più di tutti quanti i Paesi dell’Africa sub-sahariana messi insieme.
(2) In Nigeria la quota destinata al principio di derivazione dalla Federazione agli stati produttori è diminuita progressivamente dal 45% nel 1970 al 20% nel 1975, al 2% nel 1982, al 1,5% nel 1984 e al 3% nel 1992, per poi essere riportata al 13% dal governo di Olusegun Obasanjo. Nel frattempo sono aumentati il numero di stati che compongono la Federazione (al momento sono 36).
(3) La data d’inizio della mobilitazione degli ijaw può essere fatta risalire al dicembre 1998, quando 5000 ijaw si sono riuniti a Kaiama, dove hanno creato un’organizzazione strutturata (lo Ijaw Youth Council) e stilato una lettera aperta alle compagnie petrolifere, con la quale chiedevano di riprendere il controllo delle proprie terre e delle proprie risorse. Il luogo era altamente simbolico: Kaiama è la città natale di Isaac Boro, un attivista ijaw che nel 1966 aveva dato vita a una ribellione armata contro il governo centrale, creando un’effimera repubblica del Delta del Niger, distrutta dopo un paio di settimane. Gli attivisti ijaw hanno organizzato diverse manifestazioni, soprattutto a Yenagoa, capitale dello stato di Bayelsa, tutte represse con la forza dai militari. La forma attuale di mobilitazione, incentrata sull’azione di gruppi para-militari ben armati, è cominciata nel 2003 e ha il suo iniziatore in Alaji Dokubo-Asari, un ex presidente dello Ijaw Youth Council che ha fondato la Niger Delta People’s Volounteer Force (Ndpvf). Forte di un esercito di alcune migliaia di uomini, Dokubo-Asari ha scatenato una guerra alle compagnie petrolifere. Ha poi negoziato un accordo con il presidente Obasanjo, il quale, nel settembre 2005, l’ha fatto comunque arrestare, tenendolo in carcere fino alla scadenza del proprio mandato.